Riporto qui due brani tratti rispettivamente da “L’ultimo giorno di un condannato a morte” di Victor Hugo e da “L’idiota” di Dostoevskij. Due uomini completamente diversi con destini opposti, soli di fronte all’esecuzione, morti prima di smettere di respirare. Credo che qualsiasi commento di introduzione sia superfluo.
L’ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE: “In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio. Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la pioggia le mille facce urlanti della genta ammassata sulla rampa del grande scalone del palazzo, a destra, al livello della soglia, una fila di guardie a cavallo-a causa della porta bassa, non scorgevo che le zampe anteriori e i pettorali dei cavalli-; di fronte, un distaccamento di soldati in assetto di guerra; a sinistra, la parte posteriore d’una carretta, contro la quale era appoggiata un’erta scala. Un quadro orrendo, ben incorniciato da una porta di prigione.
Avevo conservato il mio coraggio per quel momento tanto temuto. Ho fatto tre passi, e sono apparso sulla soglia della guardiola.
«Eccolo! Eccolo!»ha gridato la folla. «Esce! Finalmente!»
E i più vicini battevano le mani. Un re, per quanto amato, non avrebbe avuto tanta festa.
Era un qualsiasi carretta con un cavallo macilento e un vetturino in camiciotto blu a disegni rossi, come quelli che portano gli ortolani intorno a Bicêtre.
L’omone col tricorno è salito per primo.
«Buondì, Samson!» gridavano i ragazzini appesi alle cancellate.
Un aiutante gli è andato dietro.
«Bravo, Martedì!» hanno gridato di nuovo i ragazzini.
Si sono seduti entrambi sul sedile davanti.
Toccava a me. Sono salito con un passo abbastanza fermo.
«E’ in gamba!» ha detto una donna che stava accanto alle guardie.
L’atroce elogio mi ha rincuorato. Il prete è venuto a mettersi vicino a me. M’avevano fatto sedere sul sedile di dietro, con la schiena rivolta al cavallo. Estremo riguardo che mi ha fatto rabbrividire.
Mettono dell’umanità in quello che fanno.
Ho voluto guardarmi intorno. Guardie davanti, guardie dietro; poi la folla, la folla, ancora la folla.
Un mare di teste sulla piazza.
Un picchetto di guardie a cavallo m’aspettava sulla soglia del cancello del palazzo.
L’ufficiale ha dato l’ordine. La carretta col suo corteo s’è messa in movimento, ed è stato come se l’avesse spinta innanzi l’urlo della folla.
Abbiamo varcato il cancello. Non appena la carretta ha svoltato verso il Pont-au-Change, dal selciato ai tetti è esploso il fragore della piazza, e i ponti e le banchine hanno risposto come in un terremoto.
E’ stato lì che il picchetto in attesa s’è unito alla scorta.
«Giù i cappelli! Giù i cappelli!» gridavano mille bocche insieme.-Come davanti al re.
Allora, a mia volta ho riso orrendamente, e ho detto al prete:
«Loro i cappelli, e io la testa.»
Andavamo al passo.
Il quai aux Fleurs profumava di fiori; oggi è giorno di mercato. Le venditrici hanno abbandonato per me i loro mazzetti.
Di fronte, poco prima della torre quadrata che sta all’angolo del palazzo, ci sono delle osterie con le verande piene di spettatori, felici dei loro ottimi posti. Soprattutto le donne. Sarà una buona giornata per gli osti.
Noleggiavano tavoli, sedie, impalcature, carrette. Tutto rigurgitava di spettatori. Dei venditori di sangue umano gridavano a squarciagola: «Chi vuole dei posti?»
La rabbia contro la folla m’è salita dentro. Avrei voluto gridare:
«Chi vuole il mio?»
Ma la carretta avanzava. A ogni passo, dietro la folla si smembrava e con gli occhi smarriti io la vedevo riformarsi più avanti, nei punti in cui sarei passato.
Nell’imboccare il Pont-au-Change, per caso ho guardato indietro alla mia destra. I miei occhi si sono fermati sull’altro quai, sopra le case, su una torre nera, solitaria e irta di sculture, sulla cui cima ho visto due mostri di pietra seduti di profilo. Non so perché ho chiesto al prete il nome di quella torre.
«Saint-Jacques-la-Boucherie» ha risposto il boia.
Ignoro come ciò avvenisse; ma nella nebbia, malgrado la pioggia fine e bianca che rigava l’aria come il reticolo d’una ragnatela, niente di quanto m’accadeva intorno mi sfuggiva. Ogni dettaglio m’inviava la sua tortura. Mancano le parole per siffatte emozioni.
A metà circa del Pont-au-Change, così largo e ingombro che avanzavamo a stento, mi ha invaso violentissimo l’orrore. Ho temuto – l’ultima vanità! – di venir meno. Allora mi sono stordito da solo, per farmi cieco e sordo a tutto, tranne al prete di cui udivo appena le parole, inframmezzate dal rumore.
Ho afferrato il crocefisso, l’ho baciato.
«Abbiate pietà di me, mio Dio!» ho detto.- E ho cercato di annullarmi in quel pensiero.
Ma ogni sobbalzo della dura carretta mi scuoteva. Poi d’improvviso mi son sentito addosso un gran freddo. La pioggia mi aveva attraversato gli abiti e mi bagnava la pelle dalla testa attraverso i capelli tagliati corti.
«Tremate di freddo, figliolo?» mi ha chiesto il prete.
«Si» ho risposto.
Ohimè, non soltanto per il freddo.
Alla svolta del ponte, delle donne si sono impietosite per la mia giovinezza.
Abbiamo imboccato il fatale quai. Cominciavo a non veder più nulla, a non sentir più nulla. Quello voci, quelle facce alle finestre, sulle porte, alle inferiate dei negozi, sui bracci dei lampioni; quegli spettatori avidi e crudeli; quella folla ove tutti mi conoscono e in cui io non conosco nessuno; questa strada lastricata, murata di volti umani… Ero sconvolto, inebetito, fuori di me. E’ insopportabile il peso di tanti sguardi fissi su di voi.
Vacillavo sul sedile, senza neppur prestare attenzione al prete e al crocefisso.
Nel tumulto che m’avvolgeva, non distingueva più le grida di pietà dalle grida di gioia, le risa dai lamenti, le voci dal rumore; tutto era rumore, un rumore che mi risuonava nella testa come un’eco di ottoni.
I miei occhi leggevano meccanicamente le insegne dei negozi.
D’un tratto mi ha preso la strana curiosità di girare la testa per vedere dove stavo andando. Era un’ultima bravata dell’intelligenza. Ma il corpo non ha voluto saperne; la mia nuca s’è paralizzata, quasi morta anzitempo.
Scorsi a sinistra, oltre il fiume, una delle due torri di Notre-Dame che , vista da quel punto, nasconde l’altra. Era la torre con la bandiera. Zeppa di gente, che doveva veder bene.
E la carretta andava, andava, e i negozi passavano, e le insegne si succedevano, scritte, dipinte, dorate, mentre la gentaglia rideva e scalpitava nel fango, e io mi lasciavo portare come un addormentato che s’affida ai sogni.
Ma allo svoltare di una piazza, la serie di negozi che mi sfilava davanti s’è interrotta; il grido della folla s’è fatto più vasto, più stridulo, e ancor più gioioso; di colpo la carretta s’è fermata, e io per poco non sono caduto con la faccia in giù sulle assi del piancito. Il prete mi ha sorretto. «Coraggio!» ha mormorato. – Allora hanno portato una scala sul retro della carretta; il prete mi ha dato il braccio, sono sceso, ho fatto un passo, poi mi sono girato per farne un altro, e non ci sono riuscito. Tra i due lampioni dal quai ho visto come una cosa sinistra.
Sì, era vera!
Mi sono fermato, come se già vacillassi sotto il colpo.
«Ho un’ultima dichiarazione da fare!»ho gridato debolmente.
Mi hanno fatto salire qui.
Ho chiesto che mi lasciassero scrivere le ultime volontà. Mi hanno slegato le mani, ma la corda è pronta qui vicino, e il resto è giù.
Un giudice, un commissario, un magistrato –ignoro a quale razza appartenga- è appena salito da me.
Gli ho chiesto la grazia a mani giunte, trascinandomi sulle ginocchia. Mi ha risposto con un tragico sorriso se quello era tutto ciò che avessi da dirgli.
«La grazia! La grazia!» ho ripetuto «o per pietà, cinque minuti ancora!»
Chissà, arriverà forse! E’ tremendo morire così alla mia età! Di grazie che arrivano all’ultimo momento, se ne son viste spesso. E a chi se non a me, signore, si deve dar la grazia?
Dannato boia! S’è avvicinato al giudice per dirgli che l’esecuzione va fatta a una cert’ora, che l’ora si avvicina, che il responsabile è lui, e che tra l’altro piove e c’è il rischio della ruggine.
«Sì, per pietà! Un minuto per attendere la grazia! altrimenti mi difendo! mordo!»
Il giudice e il boia sono usciti. Sono solo. – Solo con due guardie.
Oh! L’immondo popolo con le sue grida di iena! – E se non riuscissi a sfuggire? se non mi salveranno? se la mia grazia?... Impossibile che non mi diano la grazia!
Ah, miserabili! Mi sembra che salgano la scala… LE QUATTRO.”
L’IDIOTA: “ Quell’uomo una volta fu portato sul patibolo, insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte per fucilazione, per un reato politico. Una ventina di minuti dopo gli fu letta la sentenza di grazia e gli venne commutata la pena: però nell’intervallo di tempo tra le due sentenze, se non venti almeno quindici minuti, lui visse con l’assoluta certezza che d’un tratto, entro pochi minuti, sarebbe morto. Mi interessava immensamente ascoltarlo, quando a volte ricordava le sue sensazioni di allora, e talvolta gli facevo ripetere il racconto, ponendogli molte domande. Ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. A una ventina di passi dal patibolo, presso cui stavano la folla e i soldati, erano stati piantati tre pali, siccome i condannati erano parecchi. Condussero i primi tre ai pali, li legarono, li vestirono con gli abiti mortuari (lunghe tuniche bianche), e infilarono loro dei cappucci bianchi fin sugli occhi, perché non vedessero i fucili; dopo di che di fronte a ogni palo si schierò un plotone di alcuni soldati. Il mio conoscente era l’ottavo, e perciò gli sarebbe toccato andare al palo con il terzo turno. Il prete benedisse tutti con la croce. Significava che restavano da vivere non più di cinque minuti. Lui diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, un’immensa ricchezza; gli pareva di poter vivere tante vite in quei cinque minuti, che per il momento non doveva ancora pensare all’ultimo istante, e prese anche delle decisioni: calcolò il tempo per dare l’addio ai suoi compagni, e dispose per questo due minuti; altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e il resto per guardarsi intorno per l’ultima volta. Ricordava molto bene di aver preso precisamente queste tre decisioni e di aver suddiviso il tempo proprio così. Moriva a ventisette anni, sano e forte; ricordava che nel salutare i compagni, a uno di loro aveva posto una domanda che non c’entrava nulla, e si era anche molto interessato alla risposta. Dopo che ebbe dato l’addio ai compagni vennero i due minuti che aveva destinato a pensare a se stesso; sapeva già prima a che cosa avrebbe pensato: aveva sempre desiderato figurarsi nel modo più rapido e chiaro possibile quel che sarebbe accaduto: lui adesso esisteva e viveva, ma in capo a tre minuti sarebbe stato già un non so che, qualcuno, o qualcosa, ma chi? E dove? Pensava di risolvere tutto questo in quei due minuti! Non lontano c’era una chiesa, e il suo tetto dorato brillava sotto il sole splendente. Ricordava di aver fissato molto intensamente quella cupola, e i raggi che vi si riflettevano: non poteva staccarsi dai raggi, gli pareva che quei raggi sarebbero stati la sua nuova natura, e che tre minuti dopo sarebbe in qualche modo confluito in essi… L’incertezza e la repulsione verso quell’ignoto che sarebbe diventato e che stava proprio per giungere erano tremende; ma lui diceva che in quel momento niente era per lui più penoso dell’incessante pensiero: “Oh, poter non morire! Poter far tornare indietro la vita: che eternità! E tutto questo sarebbe mio! Allora trasformerei ogni minuto in un intero secolo, non ne perderei niente, terrei in conto ogni minuto, per non sprecare invano nemmeno più un istante!”. Diceva che questo pensiero alla fine gli era degenerato in una rabbia tale da fargli desiderare che gli sparassero al più presto.»