martedì 21 ottobre 2008

Hugo e il Romanticismo.


Hugo fu iniziatore della battaglia romantica in Francia, coi drammi storici Hernani (1827) e Cromwell (1830). La prefazione del Cromwell divenne una sorta di manifesto letterario per i francesi contemporanei e dichiarazione, da parte dell’autore, di un’assoluta fede romantica. In questa prefazione, Hugo parte dal concetto della libertà di pensiero per arrivare a definire come l’opera d’arte deve essere: libera da schemi, da costrizioni, dai vincoli degli stili. Le uniche leggi che l’artista può seguire sono quelle della natura, della verità e dell’ispirazione; l’artista come l’ape che estrae il miele dal fiore, trae ispirazione da quello che lo circonda e lo trasforma senza che la realtà sia violentata dalla sua opera. Il vero talento artistico deve guardarsi dall’imitazione degli altri artisti, per quanto grandi essi siano, poiché i geni sono diversi anche se si nutrono della stessa materia. Ognuno, quindi, deve attingere alle proprie fonti per esprimere la propria personalità. Il rifiuto delle regole e dei modelli non sono però metodi per distruggere l’arte, ma per ricostruirla su nuove basi.
Il pregio fondamentale dello scrittore è la correttezza linguistica, espressa con una similitudine molto poetica: “le lingue sono come il mare, oscillano incessantemente”, quindi devono adattarsi ai pensieri che vogliono esprimere. La tradizione classicista poneva una rigida gerarchia, per cui la nobiltà dei generi più elevati, come la tragedia, esigeva di escludere dai temi e dalle forme ogni elemento quotidiano e triviale; lo stile ‘basso’ era riservato alla commedia. A questa concezione Hugo (che non a caso parla di ‘dramma e non di ‘tragedia’) oppone l’idea di una mescolanza di generi e livelli, che riproduca nell’arte l’infinita varietà della vita; in linea con questo concetto, l’artista può e deve esprimersi al di là degli stili, a seconda delle necessità espressive: può essere volgare, lirico, drammatico; sondare le linee più elevate come quelle più volgari.

Riporto qui un passo che mi è piaciuto particolarmente:
“Il Cristianesimo conduce la poesia verso la verità. Come quello, la musa moderna vedrà le cose da un punto di vista più alto e più ampio. Sentirà che non tutto nella creazione è bello nel senso umano, che il brutto vi esiste a fianco del bello, il difforme accanto al grazioso, il grottesco come altro lato del sublime, il male col bene, l’ombra con la luce. Si domanderà se la ragione limitata e relativa dell’artista può prevalere sulla ragione infinita, assoluta del creatore; se spetta l’uomo a correggere Dio; se una natura mutilata sarà per questo più bella; se l’arte ha il diritto di duplicare, per così dire, l’uomo, la vita, la creazione; se una cosa sarà migliore quando le saranno tolti i muscoli e l’energia; se, infine, essere incompleti è il mezzo per essere armoniosi. E’ allora che, fissando l’occhio su avvenimenti insieme risibili e formidabili, e sotto l’influsso di quello spirito di malinconia cristiana e di critica filosofica che notavamo più sopra, la poesia farà un grande passo, un passo decisivo, un passo che, come una scossa di terremoto, cambierà completamente faccia al mondo intellettuale. Essa si metterà a fare come la natura, a mescolare nelle sue creazioni, senza confonderle, l’ombra e la luce, il grottesco e il sublime, in altri termini il corpo e l’anima, la bestia e lo spirito; perché il punto di partenza della religione è sempre lo stesso della poesia. Tutto si tiene.”

venerdì 17 ottobre 2008

Condanna a morte. Hugo e Dostoevskij.



Riporto qui due brani tratti rispettivamente da “L’ultimo giorno di un condannato a morte” di Victor Hugo e da “L’idiota” di Dostoevskij. Due uomini completamente diversi con destini opposti, soli di fronte all’esecuzione, morti prima di smettere di respirare. Credo che qualsiasi commento di introduzione sia superfluo.

L’ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE: “In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio. Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la pioggia le mille facce urlanti della genta ammassata sulla rampa del grande scalone del palazzo, a destra, al livello della soglia, una fila di guardie a cavallo-a causa della porta bassa, non scorgevo che le zampe anteriori e i pettorali dei cavalli-; di fronte, un distaccamento di soldati in assetto di guerra; a sinistra, la parte posteriore d’una carretta, contro la quale era appoggiata un’erta scala. Un quadro orrendo, ben incorniciato da una porta di prigione.
Avevo conservato il mio coraggio per quel momento tanto temuto. Ho fatto tre passi, e sono apparso sulla soglia della guardiola.
«Eccolo! Eccolo!»ha gridato la folla. «Esce! Finalmente!»
E i più vicini battevano le mani. Un re, per quanto amato, non avrebbe avuto tanta festa.
Era un qualsiasi carretta con un cavallo macilento e un vetturino in camiciotto blu a disegni rossi, come quelli che portano gli ortolani intorno a Bicêtre.
L’omone col tricorno è salito per primo.
«Buondì, Samson!» gridavano i ragazzini appesi alle cancellate.
Un aiutante gli è andato dietro.
«Bravo, Martedì!» hanno gridato di nuovo i ragazzini.
Si sono seduti entrambi sul sedile davanti.
Toccava a me. Sono salito con un passo abbastanza fermo.
«E’ in gamba!» ha detto una donna che stava accanto alle guardie.
L’atroce elogio mi ha rincuorato. Il prete è venuto a mettersi vicino a me. M’avevano fatto sedere sul sedile di dietro, con la schiena rivolta al cavallo. Estremo riguardo che mi ha fatto rabbrividire.
Mettono dell’umanità in quello che fanno.
Ho voluto guardarmi intorno. Guardie davanti, guardie dietro; poi la folla, la folla, ancora la folla.
Un mare di teste sulla piazza.
Un picchetto di guardie a cavallo m’aspettava sulla soglia del cancello del palazzo.
L’ufficiale ha dato l’ordine. La carretta col suo corteo s’è messa in movimento, ed è stato come se l’avesse spinta innanzi l’urlo della folla.
Abbiamo varcato il cancello. Non appena la carretta ha svoltato verso il Pont-au-Change, dal selciato ai tetti è esploso il fragore della piazza, e i ponti e le banchine hanno risposto come in un terremoto.
E’ stato lì che il picchetto in attesa s’è unito alla scorta.
«Giù i cappelli! Giù i cappelli!» gridavano mille bocche insieme.-Come davanti al re.
Allora, a mia volta ho riso orrendamente, e ho detto al prete:
«Loro i cappelli, e io la testa.»
Andavamo al passo.
Il quai aux Fleurs profumava di fiori; oggi è giorno di mercato. Le venditrici hanno abbandonato per me i loro mazzetti.
Di fronte, poco prima della torre quadrata che sta all’angolo del palazzo, ci sono delle osterie con le verande piene di spettatori, felici dei loro ottimi posti. Soprattutto le donne. Sarà una buona giornata per gli osti.
Noleggiavano tavoli, sedie, impalcature, carrette. Tutto rigurgitava di spettatori. Dei venditori di sangue umano gridavano a squarciagola: «Chi vuole dei posti?»
La rabbia contro la folla m’è salita dentro. Avrei voluto gridare:
«Chi vuole il mio?»
Ma la carretta avanzava. A ogni passo, dietro la folla si smembrava e con gli occhi smarriti io la vedevo riformarsi più avanti, nei punti in cui sarei passato.
Nell’imboccare il Pont-au-Change, per caso ho guardato indietro alla mia destra. I miei occhi si sono fermati sull’altro quai, sopra le case, su una torre nera, solitaria e irta di sculture, sulla cui cima ho visto due mostri di pietra seduti di profilo. Non so perché ho chiesto al prete il nome di quella torre.
«Saint-Jacques-la-Boucherie» ha risposto il boia.
Ignoro come ciò avvenisse; ma nella nebbia, malgrado la pioggia fine e bianca che rigava l’aria come il reticolo d’una ragnatela, niente di quanto m’accadeva intorno mi sfuggiva. Ogni dettaglio m’inviava la sua tortura. Mancano le parole per siffatte emozioni.
A metà circa del Pont-au-Change, così largo e ingombro che avanzavamo a stento, mi ha invaso violentissimo l’orrore. Ho temuto – l’ultima vanità! – di venir meno. Allora mi sono stordito da solo, per farmi cieco e sordo a tutto, tranne al prete di cui udivo appena le parole, inframmezzate dal rumore.
Ho afferrato il crocefisso, l’ho baciato.
«Abbiate pietà di me, mio Dio!» ho detto.- E ho cercato di annullarmi in quel pensiero.
Ma ogni sobbalzo della dura carretta mi scuoteva. Poi d’improvviso mi son sentito addosso un gran freddo. La pioggia mi aveva attraversato gli abiti e mi bagnava la pelle dalla testa attraverso i capelli tagliati corti.
«Tremate di freddo, figliolo?» mi ha chiesto il prete.
«Si» ho risposto.
Ohimè, non soltanto per il freddo.
Alla svolta del ponte, delle donne si sono impietosite per la mia giovinezza.
Abbiamo imboccato il fatale quai. Cominciavo a non veder più nulla, a non sentir più nulla. Quello voci, quelle facce alle finestre, sulle porte, alle inferiate dei negozi, sui bracci dei lampioni; quegli spettatori avidi e crudeli; quella folla ove tutti mi conoscono e in cui io non conosco nessuno; questa strada lastricata, murata di volti umani… Ero sconvolto, inebetito, fuori di me. E’ insopportabile il peso di tanti sguardi fissi su di voi.
Vacillavo sul sedile, senza neppur prestare attenzione al prete e al crocefisso.
Nel tumulto che m’avvolgeva, non distingueva più le grida di pietà dalle grida di gioia, le risa dai lamenti, le voci dal rumore; tutto era rumore, un rumore che mi risuonava nella testa come un’eco di ottoni.
I miei occhi leggevano meccanicamente le insegne dei negozi.
D’un tratto mi ha preso la strana curiosità di girare la testa per vedere dove stavo andando. Era un’ultima bravata dell’intelligenza. Ma il corpo non ha voluto saperne; la mia nuca s’è paralizzata, quasi morta anzitempo.
Scorsi a sinistra, oltre il fiume, una delle due torri di Notre-Dame che , vista da quel punto, nasconde l’altra. Era la torre con la bandiera. Zeppa di gente, che doveva veder bene.
E la carretta andava, andava, e i negozi passavano, e le insegne si succedevano, scritte, dipinte, dorate, mentre la gentaglia rideva e scalpitava nel fango, e io mi lasciavo portare come un addormentato che s’affida ai sogni.
Ma allo svoltare di una piazza, la serie di negozi che mi sfilava davanti s’è interrotta; il grido della folla s’è fatto più vasto, più stridulo, e ancor più gioioso; di colpo la carretta s’è fermata, e io per poco non sono caduto con la faccia in giù sulle assi del piancito. Il prete mi ha sorretto. «Coraggio!» ha mormorato. – Allora hanno portato una scala sul retro della carretta; il prete mi ha dato il braccio, sono sceso, ho fatto un passo, poi mi sono girato per farne un altro, e non ci sono riuscito. Tra i due lampioni dal quai ho visto come una cosa sinistra.
Sì, era vera!
Mi sono fermato, come se già vacillassi sotto il colpo.
«Ho un’ultima dichiarazione da fare!»ho gridato debolmente.
Mi hanno fatto salire qui.
Ho chiesto che mi lasciassero scrivere le ultime volontà. Mi hanno slegato le mani, ma la corda è pronta qui vicino, e il resto è giù.
Un giudice, un commissario, un magistrato –ignoro a quale razza appartenga- è appena salito da me.
Gli ho chiesto la grazia a mani giunte, trascinandomi sulle ginocchia. Mi ha risposto con un tragico sorriso se quello era tutto ciò che avessi da dirgli.
«La grazia! La grazia!» ho ripetuto «o per pietà, cinque minuti ancora!»
Chissà, arriverà forse! E’ tremendo morire così alla mia età! Di grazie che arrivano all’ultimo momento, se ne son viste spesso. E a chi se non a me, signore, si deve dar la grazia?
Dannato boia! S’è avvicinato al giudice per dirgli che l’esecuzione va fatta a una cert’ora, che l’ora si avvicina, che il responsabile è lui, e che tra l’altro piove e c’è il rischio della ruggine.
«Sì, per pietà! Un minuto per attendere la grazia! altrimenti mi difendo! mordo!»
Il giudice e il boia sono usciti. Sono solo. – Solo con due guardie.
Oh! L’immondo popolo con le sue grida di iena! – E se non riuscissi a sfuggire? se non mi salveranno? se la mia grazia?... Impossibile che non mi diano la grazia!
Ah, miserabili! Mi sembra che salgano la scala… LE QUATTRO.”



L’IDIOTA: “ Quell’uomo una volta fu portato sul patibolo, insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte per fucilazione, per un reato politico. Una ventina di minuti dopo gli fu letta la sentenza di grazia e gli venne commutata la pena: però nell’intervallo di tempo tra le due sentenze, se non venti almeno quindici minuti, lui visse con l’assoluta certezza che d’un tratto, entro pochi minuti, sarebbe morto. Mi interessava immensamente ascoltarlo, quando a volte ricordava le sue sensazioni di allora, e talvolta gli facevo ripetere il racconto, ponendogli molte domande. Ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. A una ventina di passi dal patibolo, presso cui stavano la folla e i soldati, erano stati piantati tre pali, siccome i condannati erano parecchi. Condussero i primi tre ai pali, li legarono, li vestirono con gli abiti mortuari (lunghe tuniche bianche), e infilarono loro dei cappucci bianchi fin sugli occhi, perché non vedessero i fucili; dopo di che di fronte a ogni palo si schierò un plotone di alcuni soldati. Il mio conoscente era l’ottavo, e perciò gli sarebbe toccato andare al palo con il terzo turno. Il prete benedisse tutti con la croce. Significava che restavano da vivere non più di cinque minuti. Lui diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, un’immensa ricchezza; gli pareva di poter vivere tante vite in quei cinque minuti, che per il momento non doveva ancora pensare all’ultimo istante, e prese anche delle decisioni: calcolò il tempo per dare l’addio ai suoi compagni, e dispose per questo due minuti; altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e il resto per guardarsi intorno per l’ultima volta. Ricordava molto bene di aver preso precisamente queste tre decisioni e di aver suddiviso il tempo proprio così. Moriva a ventisette anni, sano e forte; ricordava che nel salutare i compagni, a uno di loro aveva posto una domanda che non c’entrava nulla, e si era anche molto interessato alla risposta. Dopo che ebbe dato l’addio ai compagni vennero i due minuti che aveva destinato a pensare a se stesso; sapeva già prima a che cosa avrebbe pensato: aveva sempre desiderato figurarsi nel modo più rapido e chiaro possibile quel che sarebbe accaduto: lui adesso esisteva e viveva, ma in capo a tre minuti sarebbe stato già un non so che, qualcuno, o qualcosa, ma chi? E dove? Pensava di risolvere tutto questo in quei due minuti! Non lontano c’era una chiesa, e il suo tetto dorato brillava sotto il sole splendente. Ricordava di aver fissato molto intensamente quella cupola, e i raggi che vi si riflettevano: non poteva staccarsi dai raggi, gli pareva che quei raggi sarebbero stati la sua nuova natura, e che tre minuti dopo sarebbe in qualche modo confluito in essi… L’incertezza e la repulsione verso quell’ignoto che sarebbe diventato e che stava proprio per giungere erano tremende; ma lui diceva che in quel momento niente era per lui più penoso dell’incessante pensiero: “Oh, poter non morire! Poter far tornare indietro la vita: che eternità! E tutto questo sarebbe mio! Allora trasformerei ogni minuto in un intero secolo, non ne perderei niente, terrei in conto ogni minuto, per non sprecare invano nemmeno più un istante!”. Diceva che questo pensiero alla fine gli era degenerato in una rabbia tale da fargli desiderare che gli sparassero al più presto.»

Victor Hugo. Biografia.


Victor-Marie Hugo (Besaçon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia. Seppe tenersi lontano dai modelli malinconici e solitari che caratterizzavano i poeti del tempo, riuscendo ad accettare le vicissitudini non sempre felici della sua vita per farne esperienza esistenziale e cogliere i valori e le sfumature dell'animo umano.I suoi scritti giunsero a ricoprire tutti i generi letterari, dalla poesia lirica al dramma, dalla setira politica al romanzo storico e sociale, suscitando consensi in tutta Europa.
Nasce il 26 febbraio 1802 a Besaçon nella Franca Contea, dove il padre Léopold-Sigismond Hugo (1773-1828), conte napoleonico e militare dell'esercito di Giuseppe Bonaparte, si trova di guarnigione, e lo segue poi, insieme alla madre Sophie Trébuchet (1772-1821) e ai fratelli Abel Hugo (1798-1855) e EugéneHugo (1800-1837), prima a Parigi, poi anche a Napoli e in Spagna: a Napoli il padre riveste un ruolo decisivo nella cattura del brigante Fra Diavolo e per questo viene nominato governatore di Avellino; in Spagna ottiene da Giuseppe Bonaparte il grado di generale. Il giovane Victor manterrà sempre memoria di questi luoghi visti da bambino.Dal 1813 tuttavia i suoi genitori si separano e la madre, insieme al generale Victor Fanneau de la Horie, si stabilisce a Parigi. Qui Hugo frequenta il Politecnico dal 1815 al 1818, per volere del padre, ma ben presto abbandona gli studi tecnici per dedicarsi alla letteratura.
Scrive le Odi, che furono la sua prima composizione letteraria. Insieme ai fratelli fonda il foglio Le Conservateur littéraire (1819), e nello stesso anno vince un concorso dell'Académie des Jeux floraux. Inizia poi a frequentare il liceo Louis-le-Grand, e partecipa agli incontri del Cenacolo di Charles Nodier, culla del Romanticismo nascente. Scrive poi Odi et poesie diverse (1822) e molti altri scritti, fino a Odi e ballate, che gli valgono una rendita di mille franchi da parte del re LuigiXVIII.
Il 12 ottobre del 1822 sposa, nella chiesa di Saint-Sulpice di Parigi, Adèle Foucher, una sua amica d'infanzia; nasceranno cinque figli:Léopold (16 luglio – 10 ottobre 1823); Léopoldine (28 agosto 1824 – 4 settembre 1843); Charles (4 novembre 1826 – 13 marzo 1871); François–Victor (28 ottobre 1828 – 26 dicembre 1873); Adèle (24 agosto 1830 – 21 aprile 1915), l'unica a sopravvivere al padre ma che trascorrerà molti anni in una casa di riposo a causa del suo stato mentale alterato.
La scoperta, dopo qualche anno, del tradimento della moglie con l'amico di famiglia Sainte-Beuve lo porterà a condurre una vita di libertinaggio; sua amante per circa cinquant'anni sarà Juliette Drouet, un'attrice teatrale conosciuta durante le prove di Lucrezia Borgia, nel 1833. Juliette Drouet gli restò sempre vicina (salvandolo anche dalla prigione in occasione del colpo di stato di Napoleone III) nonostante le molteplici infedeltà dell'amante: per lei scriverà molti poemi, tra cui un Libro dell'anniversario compilato dai due ogni anno, il giorno dell'anniversario, appunto, del loro primo incontro. Una svolta epocale nella storia della letteratura avviene nel 1827, con l'uscita del dramma storico Cromwell, considerato il manifesto delle nuove teorie romantiche. Nella lunga prefazione, Hugo si oppone alle convenzioni del ed espone le sue teorie sul teatro e sulla letteratura in generale, che metterà poi in pratica nel dramma Hernani, del 1830, data che segna, convenzionalmente, l'inizio del Romanticismo in Francia.
Inizia un periodo molto produttivo per lo scrittore: pubblica un romanzo, Notre-Dame de Pris, del 1831, accolto da un immediato e amplissimo successo; raccolte di poesie, Le foglie d'autunno dello stesso anno e I canti del crepuscolo del 1835; altri drammi, come per esempio Ruy Blas nel 1838. Incontra Hector Berlioz, Chateaubriand, Franz Liszt, Giacomo Meyerbeer; nel 1841 viene ammesso all'Académie française, dove occupa il seggio numero 14.
Nel 1843 muoiono tragicamente la figlia Léopoldine e il genero Charles Vacquerie, annegando nel corso di una gita in barca; Hugo apprende la notizia al rientro da una vacanza, leggendola sul giornale Le Siècle. La tragedia, unita all'insuccesso del suo lavoro teatrale I Burgravi del 1845, gli causa una grave depressione che lo tiene lontano dal mondo letterario per dieci anni.
Intanto viene nominato Pari di Francia dal re Luigi Filippo d'Orléans. Nel 1848 entra a far parte come deputato dell'Assemblea Costituente, ma il colpo di stato che nel 1851 portò al potere Napoleone III segna l'inizio del suo declino politico: dapprima Hugo appoggia l'elezione del giovane Luigi-Napoleone Bonaparte alle presidenziali, ma poi — quando il nuovo presidente, futuro imperatore, inizia a prendere provvedimenti anti-liberali quali l'abrogazione della legge elettorale del 1850, riducendo di un terzo gli aventi diritto al voto — ne prende le distanze; inutile sarà il tentativo del Comitato di resistenza repubblicana, di cui fa parte insieme a Schœlcher, per sollevare la popolazione parigina: a Hugo, strenuo difensore di un regime liberale, non resta che attaccarlo con scritti e discorsi contro la miseria e le repressioni, che diventavano nel frattempo sempre più intolleranti.
Dopo il 2 dicembre 1851, Hugo deve partire per l'esilio. Parte inizialmente per Bruxelles, poi si trasferisce nell'isola di Jersey e infine a Guernesey, rifiutando l'amnistia proclamata dall'imperatore.
Inizia qui a prendere forma la sua mitica figura poetica e ideale di "Padre della patria in esilio"; gli anni trascorsi a Guernesey lo rendono così famoso che gli arrivano lettere indirizzate a "Victor Hugo — Oceano". Riprende la sua attività letteraria nel segno della satira politica, nella raccolta di poemi I castighi (1853), che prende di mira il Secondo Impero; il ricordo del passato e in particolare della figlia Léopoldine affiora nella raccolta Le contemplazioni 1856); questi sono anche gli anni dell'impegno su un piano politico più alto, idealizzato, che dà vita a La leggenda dei secoli (pubblicata in tre parti tra 1859, 1877 e 1883), che ripercorre la storia dell'umanità dalla Genesi al XIX secolo, così come a I miserabili, romanzo del 1862, I lavoratori del mare del 1866 e L'uomo che ride del 1869.
La vita non gli risparmiò i dolori: nel 1855 muore il fratello Abel, nel 1863 la figlia Adèle impazzisce scappando in Canada, nel 1868 muoiono anche la moglie e alcuni nipoti; in tutte queste disgrazie ha però sempre accanto la fedele Juliette.
A partire dagli anni sessanta viaggia per tutto il lussemburgo e percorre il reno, ma nel 1870 viene espulso dal Belgio per aver dato asilo a dei communard ricercati nella capitale francese, e trova rifugio di nuovo nel Granducato, per tre mesi, e in seguito a Vianden, Diekirch e Mondorf-les-Bains (dove segue una cura termale).
Il suo rientro in patria avviene il 5 settembre 1870, dopo la caduta di Napoleone III e l'instaurarsi della Terza Repubblica francese: Hugo è accolto da una folla acclamante ed entusiastica, e la sua casa diventa nuovamente luogo di incontro tra letterati; fino alla sua morte, rimarrà un nume tutelare della repubblica restaurata.
Riprende in questi anni la produzione letteraria con il romanzo Novantatré (1874); scrive anche poesie, alcune riguardanti la sua vita famigliare, come I miei figli (1874), e altre satirico-politiche, come Il papa (1878) e Torquemada (1882), un'opera sul fanatismo dell'inquisizione. Nel 1876 ritorna a far parte del Senato.
Nel 1878 è colpito da una congestione cerebrale, mentre i festeggiamenti per il suo ottantesimo compleanno — pubblicamente celebrati — vengono offuscati dalla morte di Juliette Drouet. Muore il 22 maggio 1885, e la sua salma viene esposta per una notte sotto l'Arco di Trionfo e vegliata da dodici poeti, anche se, in ottemperanza alle sue ultime volontà, le esequie hanno luogo nel corbillard des pauvres. Il 1° giugno, dopo aver esitato per il cimitero del Père Lachaise, è portato al Pantheon appena inaugurato. Si calcola che tre milioni di persone siano venute a rendergli omaggio in quell'occasione, mentre cronisti riportano che le prostitute della città per quella notte lavorarono gratuitamente.

lunedì 6 ottobre 2008

L'ultimo giorno di un condannato a morte. Victor Hugo.


È il 1829 l'anno che vede pubblicato per la prima volta questo scritto di Victor Hugo, ma l'autore rimane anonimo. L'Europa sta passando tempi in cui la ragione dell'uomo sembra poter portare il mondo verso una sorte migliore, priva di guerre ed inutili barbarie: eppure, in Place de Grève, vengono giustiziati uomini, sotto i colpi della ghigliottina, davanti ad un pubblico di benpensanti che paga i posti a sedere sulle terrazze intorno alla piazza per vedere meglio rotolare la testa del condannato, come una sorta di cinema dell'Ottocento.
“Tutta quella gente riderà, batterà le mani, applaudirà. E tra quegli uomini, liberi e ignoti ai carcerieri, che corrono euforici verso un’esecuzione, tra quella folla di teste che coprirà la piazza, più d’una testa sarà predestinata a seguire prima o poi la mia, nel cesto rosso. Più d’uno che ci viene per me, ci andrà per sé.
In un punto preciso di place de Grève, c’è per quegli esseri fatali un luogo fatale, un centro d’attrazione, una trappola. Vi girano attorno finché non vi sono dentro.”
[1]

Victor Hugo considera il Dernier jour una sorta di pubblica arringa travestita da racconto, in favore dell’abolizione della pena di morte, abbracciando dichiaratamente il pensiero di Beccaria (Dei delitti e delle Pene, 1764).
Il romanzo parla degli ultimi giorni di un condannato di cui non sappiamo nulla: vengono dati pochi indizi sul crimine commesso, sull'età, sull'estrazione sociale, come per far rappresentare al suo condannato la totalità dei giustiziati. Che valga per un re o per l'ultimo brigante del popolo, la vita non può essere tolta a nessuno se non da Dio.
La presunta istantaneità e l’altrettanto presunta qualità indolore di questa morte, che oggi qualcuno definirebbe ‘chirurgica’, avevano per qualche decennio suffragato l’ipotesi che la ghigliottina operasse sui rei, per così dire, beneficamente: uccidendo il corpo, ma senza inferirvi. Una delle conseguenze di questa morte addolcita fu senz’altro l’accentuarsi del carattere pubblico dell’esecuzione: la diminuzione del dolore nel condannato bastava da sola a giustificare la presenza d’un pubblico d’ogni età – persino di un pubblico per così dire sensibile.

“Dicono che non sia nulla , che non si soffra, dicono che sia una fine dolce, che la morte in questo modo sia molto semplificata.
Che significa, allora in quest’agonia di sei settimane? Che significano le angosce di questo giorno irreparabile, che scorre così adagio e così in fretta? E questa scala di torture che sfocia nel patibolo?
Ma a quanto pare, soffrire non è questo.
Che il sangue s’esaurisca a goccia a goccia, o che d’intelligenza si spegna un pensiero dopo l’altro, non sono forse due identici spasmi?” (ibidem, pag.70)

Ciò che resta vivido durante la lettura, è la continua tortura del tempo. Questo tempo in corsa, e che alla fine ruba all’altro la vita, se non ha un volto non manca però d’imporre una presenza; è contenuto in ogni frase, orientando ritmicamente la cadenza: il movimento del linguaggio segue quella del pendolo.

“L’una e un quarto.
Ecco che cosa provo in questo momento:
Un violento dolore alla testa. Freddo alle reni, la fronte bruciante. Ogni volta che m’alzo o mi piego, è come se nella testa si agitasse un liquido che manda il cervello a sbattere contro le pareti del cranio.
Ho degli scatti convulsi, e come in preda a una scossa elettrica la penna di tanto in tanto mi cade dalla mano.
Gli occhi mi bruciano come fossi in mezzo al fumo.
I gomiti mi dolgono.
Ancora due ore e quarantacinque minuti, e sarò guarito.” (ibidem, pag. 70)

L’incedere della parola non può non coniugarsi mirabilmente con l’antitesi. La morte e la vita, la prigionia e la libertà, il chiuso e l’aperto, il buio e la luce, il sogno e la realtà, il basso e l’alto, il prima e il dopo la morte, il condannato a il re, sono le principali coppie avversative attraverso le quali il monologo del Dernier jour si frantuma in una miriade di frasi, spesso brevi che procedono l’una rispetto all’altra talvolta per dissonanza oppure per risonanza.

“In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio. Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la pioggia le mille facce urlanti della gente ammassata sulla rampa del grande scalone del palazzo,…” (ibidem, pag.82).
[1] Hugo V. (1828)L’ultimo giorno di un condannato a morte,Mondadori, Milano, 1998, pag.79.

mercoledì 1 ottobre 2008

Dostoevskij. Stile e linguaggio.


Nelle sue opere, Dostoevskij è molto attento alle descrizioni di ambienti, ma ciò che risalta con maggior forza sono i dibattiti di idee, ricchi di tensione morale e religiosa.
Lo scrittore russo ha uno stile originale, le descrizioni non sono mai eccessivamente lunghe e noiose, ma vengono inserite nelle osservazioni dei vari personaggi; il lettore viene coinvolto nella narrazione, sentendosi parte del racconto, come se fosse lui stesso a poter raccontare in prima persona gli eventi; e nello tempo il lettore è a conoscenza della vita interiore dei protagonisti, come se il fuori e il dentro, l’esteriorità e l’interiorità, il pubblico e il privato fossero un tutt’uno.
Il linguaggio si caratterizza dal ritmo ossessivo che Dostoevskij ottiene mediante la brevità delle frasi, grazie alla ripetizione continua del nome che indica la persona del verbo: in questo caso il pronome di prima persona ‘Ja’, io.
“Il linguaggio si è spezzato e la sua frammentarietà rispecchia la vita psichica nelle sue oscillazioni e mutevolezze, nelle sue inclinazioni ossessive, nelle sue fratture emozionali, nella sua scissione tra pensiero e volontà.” (Bucelli, Fiorentino, 1988, pag.52).
Lo stile del discorso, frammentario e ossessivo, somiglia molto alla struttura e allo stile di un colloquio analitico, dove il paziente parla di sé, associando liberamente i suoi pensieri. Inoltre questo iterare ossessivo di ‘io’ ci rimanda ad un’espressione tipica del senso di colpa: la confessione dei peccati; e questo permette di ipotizzare un grande senso di colpa che ha accompagnato per tutta la vita Dostoevskij.