sabato 30 agosto 2008

Memorie dal sottosuolo.


Le memorie dal sottosuolo costituiscono una tappa centrale nella vicenda artistica e spirituale di Dostoevskij. Lo scrittore, quarantaduenne, è tornato da soli due anni dalla deportazione e dal confino a cui era stato condannato nel ’49 per le sue simpatie socialiste.
Con le Memorie dal sottosuolo lo scrittore fonda la narrazione su un’altra dimensione del soggetto e, per la prima volta, l’interiorità diviene il nodo focale del racconto, da cui è esclusa ogni connotazione sociale oggettiva.
Il narratore comincia presentandosi come un uomo sgarbato, irascibile, che digrigna i denti ai postulanti quando si presentano nell’oscuro ufficio dove lui lavora. Dopo aver affermato di essere un impiegato cattivo, ritira questa dichiarazione e dice di non essere nemmeno questo:

“Non soltanto non ho saputo essere cattivo, ma non ho saputo essere niente di niente: né buono né cattivo, né canaglia né galantuomo, né eroe né insetto.”[1]

Il tema successivo è la consapevolezza umana, delle proprie emozioni (la consapevolezza, non la coscienza); “dopo ogni disgustoso atto che ha commesso torna strisciando nella propria tana e comincia a godersi l’esecranda voluttà della vergogna, del rimorso, il piacere della propria bassezza, della degradazione”(ibidem, pag.153). È un piacere complesso. L’uomo-topo si sta riempiendo la vita di emozioni fasulle non avendone di reali; poi il protagonista, o il suo creatore, trova una serie di idee che ruotano intorno alla parola ‘vantaggio’; sono tutti discorsi privi di senso, ovviamente; e come l’uomo-topo non ha saputo spiegarci le gioie della degradazione e della sofferenza, così non ci spiega neppure i vantaggi dello svantaggio. L’uomo-topo evoca una futura immagine di prosperità universale, un palazzo di cristallo per tutti, e qui viene svelato in cosa consiste il misterioso vantaggio: la propria scelta libera e indipendente, il proprio capriccio, sia pure folle. In altre parole l’uomo non aspira a un tornaconto razionale, ma semplicemente a scegliere autonomamente –qualunque cosa scelga- anche a costo di distruggere le strutture della logica, della statistica, dell’armonia e dell’ordine. Poi riprende il tema della distruzione; “forse, dice, l’uomo preferisce distruggere che creare. Forse,dice, l’uomo preferisce distruggere che creare. Forse non è il raggiungimento di una meta che lo attira ma il procedimento che a essa conduce. Forse, dice l’uomo topo, l’uomo ha paura di riuscire. Forse gli piace la sofferenza. Forse la sofferenza è l’unica origine della consapevolezza. Forse l’uomo, per così dire, diventa un essere umano quando comincia a essere consapevole della propria consapevolezza di soffrire.” (ibidem, pag. 156).
I rapporti sociali non avranno più quella caratteristica rappresentazione oggettiva, ma saranno una proiezione, un riflesso della dimensione interiore. L’uomo del sottosuolo è un escluso, un reietto, un individuo che vive lontano, al di fuori della vita collettiva.
In quanto figura ambigua dell’interiorità, il ‘sottosuolo’ traccia l’orizzonte tragico della solitudine umana e si costituisce come luogo inaccessibile nel quale la soggettività si è rinchiusa; l’uomo del sottosuolo non è un eroe in senso romantico, è piuttosto un perdente, un antieroe, e il sottosuolo è il luogo del suo esilio e dell’espiazione della colpa. Così l’isolamento, il ripiegamento su se stessi e il colloquio esclusivo con la propria interiorità vengono ad assumere il valore di un affronto alla legge collettiva, una violazione contro il mondo degli uomini.
L’interiorità rappresenta tutto l’universo dell’uomo, a tal punto che non esiste più differenza tra mondo esterno e mondo interno:

“Il mio alloggio era il mio eremo, il mio guscio, il mio astuccio, nel quale mi nascondevo a tutta l’umanità.”

La vita interiore crea spontaneamente la situazioni e dirige l’azione nella dimensione del fantastico, ma il reale è naturalmente diverso. Per alcuni individui questa attitudine a fantasticare sulle circostanze future assume una parte sempre più importante nella vita psichica, al punto di diventare determinante nel rapporto con la realtà. La vita assume allora un aspetto irreale e si può aprire una frattura insanabile tra mondo interiore e mondo esterno, dove l’interiorità si dilata fino a diventare la condizione esistenziale autentica dell’individuo:

“In generale ero sempre solo. A casa, in primo luogo, e per lo più leggevo. Avevo voglia di soffocare con sensazioni esteriori tutto ciò che ribolliva incessantemente dentro di me. E fra le sensazioni esteriori rientrava tra le mie possibilità soltanto la lettura.” (ibidem, pag. 59).
[1] Dostoevskij, (1864), Memorie dal Sottosuolo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1987, pag.7.

martedì 26 agosto 2008

Memorie da una casa di morti.


In questo romanzo, scritto da Dostoevskij nel 1862, comincia a delinearsi la concezione filosofica dello scrittore sul ‘male’, come fatto inseparabile dalla vita.
In Siberia, mentre gli altri condannati politici si erano tenuti separati dagli altri ergastolani condannati per delitti comuni, Dostoevskij aveva reagito affrontando le stesse fatiche fisiche dei forzati e facendo ogni sforzo per assimilarsi ad essi, fino a sentirsi uno di loro. Così egli troverà tra i suoi compagni condannati anche degli esseri sorprendentemente docili e miti, perfino capaci di generosità.
Per lo scrittore non esiste il ‘tipo’ del criminale, colui che – come sostengono alcuni studiosi di criminologia – avrebbe addirittura le caratteristiche somatiche. Il crimine è un atto staccato da chi lo commette, ciascuno ha in sé la possibilità di compierlo; colui che compie un delitto non fa che rendersi interprete del male che l’umanità intera si porta dentro, in quanto il male non è un concetto separabile dalla vita. Tutto ciò non elimina, tuttavia, la particolare responsabilità del criminale, né la necessità della condanna. Infatti essa non dovrà essere intesa come una punizione, ma come unica possibilità per il criminale di annullare il suo debito con la società e di tornare fra la gente della vita comune, da cu il crimine lo separa.Dostoevskij, in Siberia, ha un immenso campo di osservazione; la sua capacità introspettiva si amplia molto, egli non perde un solo particolare della psicologia del forzato e raccoglie un materiale così ricco che alimenterà il suo pensiero per tutto il resto della sua vita.


UOMINI RISOLUTI: LUĈKA.

" [...] Come se, avendo una volta varcato il limite a lui vietato, cominciasse ormai a compiacersi che non c'è per lui più nulla di sacro; come se fosse trascinato a scavalcare di colpo ogni legalità e autorità e a deliziarsi della più sfrenata e illimitata libertà, a godere del sentirsi mancare il cuore per lo sgomento che non può non provare di fronte a se stesso. Egli sa inoltre che lo attende un terribile supplizio. Tutto ciò è forse simile alla sensazione che prova un uomo, quando, dall'alto di una torre, si sente attirato verso l'abisso che ha sotto i piedi, tanto che alla fine sarebbe egli stesso felice di buttarsi a capofitto: giù alla svelta, e sia un affar finito! E tutto questo accade perfino agli uomini finora più pacifici e meschini. Taluno di essi, in questa ebbrezza si dà perfino delle arie. Quanto più depresso era in passato, tanto più fortemente è tratto ora a pavoneggiarsi, a incutere paura. Egli si bea di questa paura, si compiace perfino del ribrezzo che suscita negli altri. Ostanta una specie di temerità, e un simile 'temerario' a volta attende egli stesso il castigo con impazienza, attende che decidano la sua sorte, perchè a lui stesso riesce infine gravoso il far mostra di tale ostentata temerità. E' curioso che per lo più tutto questo stato d'animo, tutta questa ostentazione dura esattamente fino al patibolo e poi è come troncata di netto: quasi si trattasse in realtà di un termine formale, si direbbe, fissato in precedenza da apposite norme. Allora l'individuo tutt'a un tratto si ammansa, si fa piccino, diventa una specie di cencio. Sul patibolo piagnucola, chiede perdono al popolo. [...]". (Dostoevskij, F. (1862), Memorie di una casa morta, p.153, Rizzoli Editore, Milano, 1950.)

Janacek - LA CASA DEI MORTI - Finale atto primo


lunedì 18 agosto 2008

Meme di Lauce.

Descrivermi con 5 foto non è semplice, ma quello che mi sono chiesta non è se questa descrizione sia sufficiente (anche perchè non lo sarebbe con infinite foto), ma se le interpretazioni, che inevitabilmente vengono fatte da coloro che leggono questo Meme, non modifichino il significato che io ho attribuito alle parole che ho usato per descrivermi.


Questo è un KRENTENBOL! Ovvero un panino all'uvetta che si trova solo in Olanda! E' morbidissimo, dolce al punto giusto e profumato, con un sacco di uvetta...
Rappresenta il mio carattere molto forte e testardo che avevo da piccola, ogni volta che accompagnavo mia mamma la supermercato esigevo un Krentebol, e non c'erano modi di convincermi a rifiutare...mi fermavo in mezzo al supermercato dopo aver rotto la palle per un bel po', e urlavo molto forte: "Kreeenteboooool!" Non avevo paura di nessuno. Sapevo già da piccola come ottenere ciò che volevo.
E' anche un ricordo della mia prima infanzia in Olanda.
Ancora adesso mi piace terribilmente.





La CIOCCOLATA (liquida, solida, bianca, nera, dolce, amara, calda, fredda) è una delle invenzioni più belle che siano mai state fatte!
Mi piace sempre.





LA PRINCIPESSA SISSI. Ho visto il film molte volte, quanto mi ha fatto sognare! Quei vestiti così belli, i palazzi, le carrozze, le finestre così alte, i drappeggi, le tavolate, l'etichetta da rispettare, gli intrighi, l'arredamento, il romanticismo, i sospiri, i valori, l'ottenere lottando, il coraggio, la bellezza, il fascino...
Mi piace moltissimo quell'atmosfera, ho sempre voluto diventare come Sissi...eh eh..forse sono nata nel secolo sbagliato!



'LA MEDITAZIONE' DI FRANCESCO HAYEZ.
Ho visto questo quadro per la prima volta quando ero in terza media, era il primo della mostra che ero andata a vedere con la classe, mi sono bloccata, ho provato una marea di sensazioni indescrivibili, i miei occhi sono diventati lucidi, avevo voglia di piangere, mi ero rispecchiata.
Sono io, sola in una stanza dove non c'è luce, malinconica e triste, arrabbiata e delusa, forte e combattiva, sensibile sotto il mio comportamento spesso freddo, con un libro che avrò sempre con me, con il coraggio di gestire la croce, di allontanarla da me, mettendo la mia mente al di sopra di qualsiasi contenimento, per cercare un giorno di essere me stessa.



I LIBRI. Sono sempre stata molto curiosa e molto riflessiva. Amo i libri, li considero come un qualcosa di sacro, milioni di pensieri che compaiono agli occhi di chi ha sete di sapere, forme diverse, copertine liscie e ruvide dai colori in forte contrasto tra loro, odori che vengono sprigionati nel momento della loro apertura, epoche che si contaminano, storie che si ripetono ma che sono vissute in modo originale, colpi di scena, messaggi nascosti, ragionamenti, trasmissione di concetti, ritrovo di se stessi.
Leggere per me è un qualcosa di sublime, mi permette di estraniarmi dalla realtà in cui vivo, bloccare quello che io sono per un momento, e ritornare più ricca, più colta, più forte nei miei pensieri, più vicina alla comprensione di me stessa.
E' solo tramite i libri che possiamo vivere molte vite.
Oltre a Rò non conosco nessun blogger, chi si sia fermato a leggere questo meme e abbia voglia di mettersi alla prova si faccia avanti! Racconta chi sei con 5 foto!
Lauce.

giovedì 14 agosto 2008

Ivan Aleksandrovič Gončarov

Ivan Aleksandrovič Gončarov (in russo Иван Александрович Гончаров ), nasce a Simbirsk il 6 Giugno del 1812, in una agiata famiglia di mercanti; suo padre era un facoltoso statale.
Tra il 1817 e il 1830 riceve la sua educazione seguito, tra le mura domestiche, da un prete molto severo, ma estremamente colto, grazie al quale poté leggere poeti e scrittori russi, quali Cherasov, Ozerov, Deržavin, oltre alle opere storiche e resoconti di viaggio.
Nel 1831/1833 si iscrive alla facoltà di Filologia presso l’Università di Mosca; terminata questa esperienza, torna a Simbirsk dove entra nella burocrazia imperiale.
Tra il 1837 e il 1846 si trasferisce a Pietroburgo, dove trova lavoro presso il dipartimento del commercio estero del Ministero delle Finanze. È in questo periodo che conosce Majkov e Belinskij.
Nel 1847 pubblica il suo primo romanzo, Una storia in comune, seguito dal racconto, scritto secondo i dettami della scuola “naturale”, Ivan Savvič Podžabrin.
Tra il 1852 e il 1854 partecipa, in qualità di segretario, alla spedizione dell’ammiraglio Putjatin in Inghilterra, Africa, Cina e Giappone. Questa esperienza rappresenta la sua unica avventura che descrive poi in un resoconto di viaggio, La fregata Pallada, pubblicato nel 1858.
Nel 1855 pubblica il romanzo Oblomov, riscuotendo immediato e vasto successo.
Tra il 1856 e il 1867, rientrato a Pietroburgo, ricopre l’incarico di censore e parallelamente collabora con il giornale “La posta del nord”. Diviene poi membro del Consiglio per gli affari di stampa.
Tra il 1868 e il 1890, lasciato l’ufficio di censore e ritiratosi a vita privata, pubblica nel 1869 il suo terzo romanzo, Il burrone. Scrive poi brevi racconti e saggi critici, tra i quali il più significativo resta senz’altro Un milione di tormenti sulla commedia Che disgrazia l’ingegno! di Griboedov.

Scapolo irriducibile, muore solo, a San Pietroburgo il 27 Settembre 1891, lasciando i suoi beni alla vedova del suo domestico.

martedì 12 agosto 2008

L'Idiota




Il giorno dell’esecuzione si configurò all’interno della coscienza di Dostoevskij come una sorta di tempo dilatato eternamente presente; nelle ore che lo separano dall’esecuzione ha modo di rendersi conto di quanto la morte già gli appartenga entrando inevitabilmente in un mondo di terrore e di fantasie deliranti.
A distanza di molti anni Dostoevskij ricorda questo episodio ne L’idiota[1] :
“Quell’uomo una volta fu portati sul patibolo, insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte per fucilazione, per un reato politico. Una ventina di minuti dopo gli fu letta la sentenza di grazia e gli venne commutata la pena: però nell’intervallo di tempo tra le due sentenze, se non venti almeno quindici minuti, lui visse con l’assoluta certezza che d’un tratto, entro pochi minuti, sarebbe morto. […] Ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. […] Condussero i primi tre ai pali, li legarono, li vestirono con gli abiti mortuari (lunghe tuniche bianche), e infilarono loro dei cappucci bianchi fin sugli occhi, perché non vedessero i fucili; […] Significava che restavano da vivere non più di cinque minuti. Lui diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, un’immensa ricchezza; gli pareva di poter vivere tante vite in quei cinque minuti, che per il momento non doveva ancora pensare all’ultimo istante, e prese anche delle decisioni: calcolò il tempo per dare l’addio ai suoi compagni, e dispose per questo due minuti; altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e il resto per guardarsi intorno per l’ultima volta. […] Lui adesso esisteva e viveva, ma in capo a tre minuti sarebbe stato già un non so che, qualcuno , o qualcosa, ma chi? E dove? Pensava di risolver tutto in quei due minuti! Non lontano c’era una chiesa, e il suo tetto d’orato brillava sotto il sole splendente. Ricordava di aver fissato molto intensamente quella cupola, e i raggi che vi si riflettevano: non poteva staccarsi dai raggi, gli pareva che quei raggi sarebbero stati la sua nuova natura, e che tre minuti dopo sarebbe in qualche modo confluito in essi… L’incertezza e la repulsione verso quell’ignoto che sarebbe diventato e che stava proprio per giungere erano tremende; ma lui diceva che in quel momento niente era per lui penoso dell’incessante pensiero: ‘Oh, poter non morire! Poter far tornare indietro la vita: che eternità! E tutto questo sarebbe mio! Allora trasformerei ogni minuto in un intero secolo, non ne perderei niente, terrei in conto ogni minuto, per non sprecare invano nemmeno più un istante!’. Diceva che questo pensiero alla fine gli era degenerato in una rabbia tale da fargli desiderare che gli sparassero al più presto.”

[1] Dostoevskij, (1869), L’idiota, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995, pag.81.

sabato 9 agosto 2008

Vicenda della condanna a morte di Dostoevskij


Nel 1849 Dostoevskij fu arrestato dalla polizia zarista sotto l’accusa di cospirazione e in seguito fu condannato a morte insieme ai suoi compagni. La sentenza fu eseguita in tutti i suoi macabri particolari – i condannati vestiti con il camice funebre di colore bianco, la lettura della condanna, la disposizione del plotone di esecuzione – all’ultimo momento giunse un messo a cavallo con la notizia della concessione della grazia: la pena veniva commutata nei lavori forzati in Siberia. Ma non si trattava di una concessione sovrana, provvidenzialmente sopraggiunta all’ultimo momento. In realtà era accaduta una cosa odiosa e terribile. Il Governo zarista, nella sua bieca necessità di controllare le coscienze, aveva portato degli esseri umani fino al limite estremo della vita, esponendoli ad una pena insopportabile per la mente di un uomo. Questo momento estremo è scandito da un rituale che ne sottolinea l’eccezionalità e che si imprime indelebilmente nella coscienza dei condannati, dilatata fino allo spasimo. Questa esperienza rappresentò una tremenda prova per il loro equilibrio psichico: alcuni non ressero a questa tensione estrema e impazzirono. Dostoevskij mantenne la padronanza di sé – allora come durante i penosi anni di lavori forzati – ma il ricordo di quei momenti lo accompagnò per tutta la vita, divenendo il centro ideale di tutte le sue riflessioni sulla vita e sul destino dell’uomo. Il giorno dell’esecuzione si configurò all’interno della sua coscienza come una sorta di tempo dilatato eternamente presente, cristallizzato nella sua terribilità.
“Tutta la sua vita successiva è stata improntata dalla tensione psicologica di quegli attimi e dalla conoscenza profonda e perturbante che sempre scaturisce dalle situazioni limite. Dopo essere entrato per dei lunghi e interminabili momenti nell’eternità, era tornato indietro nella vita. Qualcuno dei suoi compagni rimase fissato per sempre a guardare oltre la soglia che divide la vita dalla morte, nell’abisso dell’inconscietà. Egli riuscì a varcare di nuovo quella soglia fatale, e ritornò portando con sé la sapienza della morte.”[1]
[1] D.Bucelli, M.Fiorentino, Saggio Dostoevskij e la vita interiore, Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. 12, Roma, 1988, pag.42.

giovedì 7 agosto 2008

La punizione del gioco in Dostoevskij


Dostoevskij parte per la prima volta verso l’Occidente all’inizio del mese di giugno del 1863. E’ diretto a Parigi, ma quando passa per Wiesbaden, allora una delle capitali del gioco in Europa, come la altre città d’acqua tedesche, Baden-Baden, Amburgo, Ems, scende dal treno per sfidare la sorte alla roulette, attratto dalle illusorie descrizioni lette sui giornali russi.
Passato non molto tempo, Dostoevskij, consigliato dal suo medico, visto che le sue crisi di epilessia diventavano sempre più frequenti, decide di partire di nuovo per l’Europa. Sua moglie tubercolotica sta morendo e lui deve raggiungere a Parigi l’amica Polina Suslova (Apolinarija Suslova, adombrata nel personaggio di Polina Aleksàndrovna del Giocatore). La partenza è però continuamente rimandata e Polina, spazientita, si innamora di uno studente spagnolo. Dostoevskij, furioso, si mette allora in viaggio, ma, ancora, passando per Wiesbaden, cede alla tentazione della roulette.
Arrivato a Parigi, trova Polina che ha appena rotto con lo spagnolo, quindi si propongono di partire insieme per l’Italia, non rinunciando, tuttavia, a passare per Wiesbaden e Baden-Baden, dove perdono tutti i soldi che lui era riuscito a guadagnare.
E’ allora che gli viene l’idea di scrivere un romanzo sul gioco. Scrive all’amico Strachov, da Roma, il 18 settembre 1863[1]:
Per ora non ho niente di pronto, ma ho un bel progetto in mente. L’ho annotato in parte su carta straccia […]. Il soggetto è questo: il tipo dell’uomo russo all’estero. Tutto questo ci sarà nel romanzo, ma io voglio che vi si rifletta, nella misura in cui vi è possibile, lo stato attuale della nostra vita interiore. Penso a un uomo il cui carattere sia assolutamente aperto, un uomo che si interessi a diverse materie, ma incompleta a ognuna. Ha perduto ogni fede, ma nello stesso tempo non osa essere miscredente. E’ a un tempo ribelle all’autorità e spaventato da essa. Si consola pensando che non ci sia niente da fare per lui in Russia, e condanna crudamente tutti coloro che vorrebbero richiamare in patria i russi che vivono all’estero. Ma non posso raccontarti tutto adesso. […] Il punto essenziale è che tutta la sua linfa vitale, le sue forze, il suo impeto e la sua audacia sono assorbiti dalla roulette. […] Il mio eroe a modo suo è un poeta, ma si vergogna di questa poesia di cui sente profondamente la bassezza. Tuttavia il bisogno di rischiare qualcosa lo risolleva dai propri occhi. Il racconto parlerà solo dei tre anni in cui egli gioca alla roulette.

Solo parecchi anni più tardi Dostoevskij realizzerà il suo progetto, dopo diversi viaggi e un’assidua frequentazione dei tavoli da gioco tedeschi, dopo la morte della moglie e del fratello. Oppresso dai creditori, firma un contratto con l’editore Stellovskij per la pubblicazione delle sue opere complete, impegnandosi a consegnare un romanzo inedito entro il 1° novembre 1866, pena la perdita di tutti i diritti su questa edizione e l’obbligo di rimborsare il denaro che aveva già ricevuto. Avendo però già avuto un anticipo da un altro editore per Delitto e Castigo, si trova a dover terminare due libri con scadenze impossibili.
Così, quando Dostoevskij, infine, scrive il suo racconto, si gioca l’ultima carta. Se non vince la scommessa di scrivere quest’opera, perde tutto. Le circostanze della redazione si accordano fin troppo bene con il tema che affronta, tema che già da anni avrebbe voluto sviluppare, non solo con la speranza di guadagnare qualche soldo, ma soprattutto sperando così di smettere di perderne, perché questo libro è un esorcismo. Si sforza, descrivendola, di neutralizzare la passione del gioco che lo travolge.
La personalità che con tale forza vive in queste pagine prima per il suo autore che per noi, Dostoevskij vuole separarla dalla sua; l’autore vuole liberarsi da questo suo doppio che lo divora e lo rovina. E’ dunque lui che parla, ma cercando di differenziare l’eroe da se stesso, inserendolo in circostanze ben precise, che sottolineano il distacco da lui, di modo che, quando nelle ultime righe del libro si leggerà: “Domani, domani tutto finirà!”, egli potrà sperare che queste parole saranno vere per se stesso, per lui, Fëdor Dostoevskij, vale a dire che da quel momento avrà la saggezza di non giocare mai più, mentre tutta la fatalità della roulette, a cui invano aveva cercato di sottrarsi fino ad allora, si abbatterà sul suo capro espiatorio, che è Alekséj Ivànovic.
Scrivendo Il Giocatore, dunque, Dostoevskij gioca, gioca per liberarsi dal gioco, per far tacere il giocatore che c’è in lui.
Se all’inizio del racconto i giocatori sono separati da coloro che si limitano a guardare i gentlemen, con l’arrivo della nonna questa distinzione si dissolve. Se all’inizio del racconto, il generale e il suo seguito riescono sempre a fare bella figura, a comportarsi in modo ragionevole, con il comportamento imprevedibile della nonna, che sarcasticamente si può associare alla biglia che gira nella cuvette, questo atteggiamento contenuto non è più possibile.
Se Alekséj si mette a giocare veramente è per umiliazione, perché è stato cacciato dal generale e vede con quale rapidità intorno al tavolo della roulette il rispetto si riconquisti, grazie alle somme di denaro, di cui decide la piccola biglia.
In una società dove il rispetto dipende a tal punto dal denaro, senza che nessuno si interroghi sulla sua origine, se il tavolo da gioco è il luogo dove si può guadagnare molto denaro in poco tempo, si può dire che esso sia anche l’unica difesa per colui che è umiliato.
Se Alekséj non è salvato alla fine del libro, se sprofonda nell’inferno del gioco, è perché è solo, malgrado l’attaccamento capriccioso e distante che prova per lui Polina. Dostoevskij, lui, mentre stava completando la stesura, puntò su un’altra donna, Ana, che lo aiutò come stenografa e dopo tre mesi diventerà sua moglie. Quando mette il punto finale, quando consegna il manoscritto nelle mani del commissario di polizia, spera di abbandonare, rinchiuso nella gabbia che lui stesso ha costruito, il suo disgraziato doppio. Quindi lui sarà liberato.

[1] Dostoevskij (1866), Il giocatore, introduzione di Michel Butor, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1991, pag.VI.

domenica 3 agosto 2008

Bisessualità nella vita e nelle opere di Dostoevskij


Riprendendo il pensiero di Freud, oltre al parricidio vi è un’altra fonte che contribuisce ad alimentare il senso di colpa: la bisessualità. Questa disposizione subentra nel momento in cui il bambino reagisce alla minaccia della sua virilità, rappresentata dall’evirazione, ponendosi nella posizione della madre e assumendo il suo ruolo di oggetto d’amore agli occhi del padre. “Una disposizione accentuatamente bisessuale diventa così un elemento che rende possibile o rafforza la nevrosi” (Freud, 1927, pag.528). Freud ipotizza questa predisposizione nel caso di Dostoevskij considerando l’importanza delle amicizie maschili nella sua vita e la dolcezza del suo comportamento verso i rivali in amore.
Si potrebbe prendere in considerazione a questo proposito un esempio lampante di questa sua disposizione nel racconto Cuore debole, dove il protagonista Vasja Šumakov ottiene dal suo capo Julian Mastakovič un posto e in seguito viene anche promosso, credendo che tutto ciò gli provenga dalla generosità del suo capo. Ma il sentimento di gratitudine in Vasja si trasforma pian piano in un atteggiamento di servilismo e, quando Vasja non fa in tempo a consegnare il lavoro, il suo senso di colpa è talmente grande che lo porta alla follia.
Vasja e Arkadij Nefedevič abitano nello stesso appartamento, e Dostoevskij ce li descrive come amici molto stretti, che condividono le esperienze di vita con relative emozioni. Quello che colpisce è la dolcezza dell’atteggiamento che hanno questi due personaggi tra loro: « “Ah, Arkaša! Salve colombello! Ebbene fratello, tu non sai che cosa sto per dirti!” “Proprio non lo so; vieni qui, avvicinati.” Vasja, come se non attendesse altro, si precipitò, non sospettando alcuna perfida intenzione da parte di Arkadij Ivanovič. Ma questi lo afferrò con molta destrezza per le braccia, lo rigirò, scaraventandolo sotto di sé, e cominciò a ‘soffocare’ la sua povera vittima, cosa che sembrava procurargli un piacere immenso.»[1]
« “Ebbene, mi sono fidanzato”. Arkadij Ivanovič, senza proferire la minima parola di augurio, in silenzio sollevò Vasija sulle sue braccia come un bimbo, sebbene Vasja non fosse affatto piccolino, ma di statura piuttosto elevata, benché esile, e prese a trascinarlo con molta naturalezza da un angolo all’altro della stanza, fingendo di cullarlo.» (ibidem, pag 185).
« “Io non te l’ho mai detto prima, Arkadij… Arkadij! La tua amicizia mi rende così felice, senza di te non sarei al mondo – no, no, non dire niente, Arkaša! Dammi la tua mano perché la stringa, lascia che … ti ringrazi!” Arkadij Ivanovič avrebbe voluto subito gettarsi al collo di Vasija, […].» (ibidem, pag 198).
[1] Dostoevskij (1848), Cuore debole, in Racconti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991, pag.189.

Il confronto con il padre nell'autorità statale e nella fede in Dio


Il Padre è Dio. Ma se la presenza del padre e dunque del Padre nell’“io” è un ingombro alla nascita dell’“io” stesso, allora come uscirne?
“Ivàn – come Raskòl’ikov ecc. – continua a riflettere sul senso di quella sua scoperta teorica, ‘se Dio non esiste allora tutto è permesso’, e se ne ipnotizza. Quella frase è l’immediata conseguenza della voglia di parricidio: se il padre non ci fosse più a vincolare il mio ‘io’, allora tutto ciò che il mio ‘io’ può mi sarebbe permesso: e dal padre terreno a quello divino, tale frase potrà naturalmente percorrere tutti i grandi intermedi, in un crescendo rivoluzionario: se le autorità spirituali non ci fossero allora tutto sarebbe permesso, se lo zar non ci fosse allora tutto sarebbe permesso, e così via”. (ibidem, pag.XXVIII).
In Delitto e Castigo Dostoevskij descrive la vicenda di un uomo che ritiene di poter infrangere la legge del rispetto umano, confondendo la libertà con l’arbitrio. Nei Demoni è raffigurata la stessa vicenda, ma protagonista del delitto, che incontrerà il suo castigo, non è più un uomo singolo ma una setta di cospiratori. La filosofia del “tutto è permesso”, che è quella di Raskòl’nikov in Delitto e castigo, diviene nei Demoni la teoria rivoluzionaria secondo la quale non vi sono argini di bene e di male nell’azione politica. In entrambi i casi non si giustifica per Dostoevskij il ricorso alla violenza e all’omicidio. La personalità dell’uomo, di qualsiasi uomo, anche il più miserevole, come la sudicia usuraia di Delitto e castigo, è qualcosa di sacro e di assoluto che non è lecito adoperare come mezzo o strumento ma si deve rispettare come valore e fine in sé.
Sia Raskòl’nikov che Stavroghin hanno infranto la morale corrente. Ma Raskòl’nikov crede di aver scoperto una verità teoretica e lotta per conquistarsi la sua libertà, anche se illusoria; è un ricercatore. Stavroghin invece non cerca nulla, non crede in nulla; ha grandi capacità intellettive che però non sono dotate di un senso morale.
Attraverso i vari personaggi dei due romanzi qui citati, Dostoevskij ci vuole persuadere che il mondo liberale è un mondo fiacco, incapace di scorgere le conseguenze delle proprie posizioni ideologiche.
“Il carattere della ‘demonicità’ è quello di spingere e travolgere l’uomo suo malgrado, privandolo della libertà e della disponibilità interiore, recidendo i vincoli di partecipazione umana con gli altri. Questa demonicità che nega Dio, la libertà e la personalità, è più una malattia psichica che un fenomeno politico. La “demonicità” e la “ossessione” sono forze che paralizzano la personalità, atrofizzano il senso della libertà e contraggono la coscienza.”
[1]
[1] Dostoevskij (1870), I demoni, introduzione di Remo Cantoni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987, pag.X.