mercoledì 19 novembre 2008

Nikolaj Vasil’evic Gogol’.Biografia.



Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (in russo Никола́й Васи́льевич Го́голь, pronuncia Nikalàj Vassìljevic Gógal ) (Bol’šie Soročincy (Poltava, in Ucraina), 20 marzo 1809 – Mosca, 21 febbraio 1852) è stato uno scrittore e drammaturgo russo.
Nasce il 20 marzo 1809 a Bol’šie Soročincy, un villaggio nell’Oblast di Poltava in Ucraina, da Vasilij Afanas’evič Gogol’, scrittore di commedie in lingua ucraina.
Inizia a frequentare nel 1818 la scuola a Poltava insieme al fratello minore Ivan; nel 1819, anno in cui muore Ivan, Gogol’ continua la sua istruzione con insegnanti privati.
Nel 1821 viene ammesso al liceo e nel 1825, anno in cui muore il padre, inizia a scrivere. Tra i racconti più significativi di questi anni : I masdanieri, una tragedia andata perduta, I fratelli Tverdislavič e Qualcosa su Nežin, ovvero pr gli stupidi la legge non è scritta.
Nel 1828, dopo aver terminato gli studi al ginnasio, si trasferisce a Pietroburgo. Dopo aver passato un periodo senza impiego, nel 1829 pubblica L’Italia e Hans Küchelgarten, un poema che Gogol’ brucia dopo una critica negativa. Ad agosto dello stesso anno intraprende un viaggio precipitoso a Lubecca, Travemünde e Amburgo, e al suo ritorno prova a lavorare come impiegato presso il Dipartimento dell’Economia di Stato e degli Edifico Pubblici. Nel 1830 viene assunto per un posto vacante di copista al Dipartimento degli Appannaggi di Corte; dopo aver scritto le prime prose (La sera della vigilia di San Giovanni, Etmanno), fa conoscenza con i poeti e letterati Vasilij A Zukovskij e Pëtr A.Pletnëv.
Nel 1831 conosce il poeta AleksandrPuškin e nelle stesso anno pubblicò, oltre le Veglie alla fattoria presso Dikan’ka, diverse opere: La fiera di Soročincy, La sera della vigilia di Ivan Kupalo, La notte di Maggio (o L’annegata) e La lettera smarrita. Nel 1832 pubblicò il secondo volume delle Veglie alla fattoria presso Dikan’ka e, durante un suo soggiorno a Mosca, conobbe molti intellettuali quali Micha
il Petrovič, Sergej Timofeevič Aksakov e Michail Nikolaevič Zagoskin.
Nel 1834, dopo aver passato una crisi creativa, grazie all’intervento di A.Puškin e V.Žukovskij, gli viene assegnato un posto di professore aggiunto presso la cattedra di Storia universale all’Università di Pietroburgo. In questo periodo lavora intensamente a otto racconti e due commedie, oltre a scrivere vari articoli per riviste letterarie.
Nel 1835, oltre a iniziare il romanzo Le Anime Morte, pubblica le raccolte Arabeschi(La prospettiva Nevskij, Diario di un pazzo, Il ritratto) e Mirgorod (Possidenti di antico stampo, Taras Bul’ba, Vij, Come Ivan Ivanovič litigò con Ivan Nikiforovič). Per “motivi organizzativi” non gli fu rinnovato l’incarico di Professore, così, nel 1836, si dedicò febbrilmente alla produzione di racconti, pubblicati sulla rivista di A.Puškin, Sovremennik (tradotto in Italiano: Il contemporaneo). Tra questi racconti spiccano: Il calesse, La mattinata di un uomo molto occupato, Il naso e l’articolo Della letteratura nelle riviste del 1834-1835, Ispettore Generale. A giugno parte per l’estero: Amburgo, Düsseldorf, Aquisgrana, Francoforte, Baden-Baden, e Ginevra dove riprende il lavoro sulle Anime Morte.
Nel 1837 va a Parigi, poi passando per Genova, va a Firenze e Roma dove conosce il pittore Aleksandr A. Ivanov. Prosegue i suoi viaggi in Germania e in Svizzera, dopodichè torna a Roma, va a Milano e poi di nuovo Roma, dove vive in via Santo Isidoro n.17 fino a giugno1839 (a parte dei brevi soggiorni a Napoli e Parigi). Vengono a trovarlo V.Žukovskij con il principe ereditario e il principe Iosif M.V’el’gorskij. Frequenta diversi scrittori russi residenti nella città del Papa, specialmente Ivanov e Šapovalov. Conosce il letterato Pagodin e Giuseppe Giacchino Belli ed oltre a lavorare intensamente a Le Anime Morte, inizia a studiare la lingua italiana in occasione della sua permanenza in Italia.
Nel 1839 cura J.V’el’gorskij che muore tra le sue braccia il 21 maggio, poi torna a Mosca; fa visita a sua madre, a giugno del 1840 soggiorna per un paio di mesi a Vienna dove si ammala gravemente, poi, passando per Venezia, ritorna per un anno a Roma. Qui scrive una nuova versione del racconto Il ritratto, Taras Bul’ba e L’ispettore generale.
Nell’agosto 1841 intraprende un viaggio a Düsseldorf, Francoforte, Hanau; poi passando per Dresda e Berlino, a metà ottobre giunge a Mosca dove si occupa dell’edizione della I parte delle Anime Morte; il testo viene respinto dal comitato della censura.
Nel 1842 Gogol’ affida il manoscritto delle Anime Morte a V.Belinskij che lo porta a Pietroburgo, dove il romanzo riesce ad ottenere il permesso della censura in marzo. Passando per Berlino e Gastein, giunge in settembre a Roma insieme al poeta Nikolaj M.Jazkov, ed affitta una casa in via Felice n.126; lavora alla II parte delle Anime Morte e pubblica il frammento Roma.
Nel 1843 pubblica le sue opere in quattro volumi, dove per la prima volta appare il magistrale racconto Il cappotto. Ad aprile parte per Firenze, Verona, Gastein, Monaco, Francoforte, Stoccarda, Baden-Baden, Düsseldorf, e passa l’inverno a Nizza dove lavora alla II parte delle Anime Morte.
Fino a marzo del 1844 soggiorna a Nizza nella cerchia della Smirnova; in seguito riprende il viaggio: Darmstadt, Francoforte, Ostenda, dal settembre è ospite di V.Žukovskij a Francoforte, il lavoro sul romanzo si ferma e Gogol’ si sente ammalato di nervi.
Nel 1845 si ammala a Francoforte e si trasferisce prima a Praga, poi torna nuovamente a Roma, dove continua il lavoro del secondo volume de Le Anime Morte. Pubblica i Brani scelti della corrispondenza con gli amici, cui seguono polemiche con S.Aksakov, M.Pogodin e A.Ivanov, e diventa amico del religioso Konstantinovskij, che finisce per aggravare la sua nevrosi.
Nel 1848 visita Malta, Costantinopoli, Gerusalemme e Odessa; torna a Mosca in settembre, dove incontra il drammaturgo Aleksandr Ostrovskij, soggiorna prima in casa di M.Pogodin, in seguito dal conte A.P.Tolstoj. Tra il 1849 e il 1851 vive tra Mosca, Odessa, e Vasil’evka, lavora intensamente alla II parte de Le Anime Morte e il suo stato di salute peggiora notevolmente.
Il 1° gennaio 1852 Gogol’ comunica all’editore di aver terminato la II parte delle Anime Morte; a fine gennaio ha dei colloqui con padre Matvej che lo sconvolgono; nella notte tra l’11 e il 12 febbraio brucia la II parte de Le Anime Morte. Immediatamente dopo rifiuta qualsiasi nutrimento. Il 21 febbraio alle otto del mattino lo scrittore muore. Viene sepolto quattro giorni dopo nel Monastero di S.Danilo.

martedì 21 ottobre 2008

Hugo e il Romanticismo.


Hugo fu iniziatore della battaglia romantica in Francia, coi drammi storici Hernani (1827) e Cromwell (1830). La prefazione del Cromwell divenne una sorta di manifesto letterario per i francesi contemporanei e dichiarazione, da parte dell’autore, di un’assoluta fede romantica. In questa prefazione, Hugo parte dal concetto della libertà di pensiero per arrivare a definire come l’opera d’arte deve essere: libera da schemi, da costrizioni, dai vincoli degli stili. Le uniche leggi che l’artista può seguire sono quelle della natura, della verità e dell’ispirazione; l’artista come l’ape che estrae il miele dal fiore, trae ispirazione da quello che lo circonda e lo trasforma senza che la realtà sia violentata dalla sua opera. Il vero talento artistico deve guardarsi dall’imitazione degli altri artisti, per quanto grandi essi siano, poiché i geni sono diversi anche se si nutrono della stessa materia. Ognuno, quindi, deve attingere alle proprie fonti per esprimere la propria personalità. Il rifiuto delle regole e dei modelli non sono però metodi per distruggere l’arte, ma per ricostruirla su nuove basi.
Il pregio fondamentale dello scrittore è la correttezza linguistica, espressa con una similitudine molto poetica: “le lingue sono come il mare, oscillano incessantemente”, quindi devono adattarsi ai pensieri che vogliono esprimere. La tradizione classicista poneva una rigida gerarchia, per cui la nobiltà dei generi più elevati, come la tragedia, esigeva di escludere dai temi e dalle forme ogni elemento quotidiano e triviale; lo stile ‘basso’ era riservato alla commedia. A questa concezione Hugo (che non a caso parla di ‘dramma e non di ‘tragedia’) oppone l’idea di una mescolanza di generi e livelli, che riproduca nell’arte l’infinita varietà della vita; in linea con questo concetto, l’artista può e deve esprimersi al di là degli stili, a seconda delle necessità espressive: può essere volgare, lirico, drammatico; sondare le linee più elevate come quelle più volgari.

Riporto qui un passo che mi è piaciuto particolarmente:
“Il Cristianesimo conduce la poesia verso la verità. Come quello, la musa moderna vedrà le cose da un punto di vista più alto e più ampio. Sentirà che non tutto nella creazione è bello nel senso umano, che il brutto vi esiste a fianco del bello, il difforme accanto al grazioso, il grottesco come altro lato del sublime, il male col bene, l’ombra con la luce. Si domanderà se la ragione limitata e relativa dell’artista può prevalere sulla ragione infinita, assoluta del creatore; se spetta l’uomo a correggere Dio; se una natura mutilata sarà per questo più bella; se l’arte ha il diritto di duplicare, per così dire, l’uomo, la vita, la creazione; se una cosa sarà migliore quando le saranno tolti i muscoli e l’energia; se, infine, essere incompleti è il mezzo per essere armoniosi. E’ allora che, fissando l’occhio su avvenimenti insieme risibili e formidabili, e sotto l’influsso di quello spirito di malinconia cristiana e di critica filosofica che notavamo più sopra, la poesia farà un grande passo, un passo decisivo, un passo che, come una scossa di terremoto, cambierà completamente faccia al mondo intellettuale. Essa si metterà a fare come la natura, a mescolare nelle sue creazioni, senza confonderle, l’ombra e la luce, il grottesco e il sublime, in altri termini il corpo e l’anima, la bestia e lo spirito; perché il punto di partenza della religione è sempre lo stesso della poesia. Tutto si tiene.”

venerdì 17 ottobre 2008

Condanna a morte. Hugo e Dostoevskij.



Riporto qui due brani tratti rispettivamente da “L’ultimo giorno di un condannato a morte” di Victor Hugo e da “L’idiota” di Dostoevskij. Due uomini completamente diversi con destini opposti, soli di fronte all’esecuzione, morti prima di smettere di respirare. Credo che qualsiasi commento di introduzione sia superfluo.

L’ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE: “In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio. Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la pioggia le mille facce urlanti della genta ammassata sulla rampa del grande scalone del palazzo, a destra, al livello della soglia, una fila di guardie a cavallo-a causa della porta bassa, non scorgevo che le zampe anteriori e i pettorali dei cavalli-; di fronte, un distaccamento di soldati in assetto di guerra; a sinistra, la parte posteriore d’una carretta, contro la quale era appoggiata un’erta scala. Un quadro orrendo, ben incorniciato da una porta di prigione.
Avevo conservato il mio coraggio per quel momento tanto temuto. Ho fatto tre passi, e sono apparso sulla soglia della guardiola.
«Eccolo! Eccolo!»ha gridato la folla. «Esce! Finalmente!»
E i più vicini battevano le mani. Un re, per quanto amato, non avrebbe avuto tanta festa.
Era un qualsiasi carretta con un cavallo macilento e un vetturino in camiciotto blu a disegni rossi, come quelli che portano gli ortolani intorno a Bicêtre.
L’omone col tricorno è salito per primo.
«Buondì, Samson!» gridavano i ragazzini appesi alle cancellate.
Un aiutante gli è andato dietro.
«Bravo, Martedì!» hanno gridato di nuovo i ragazzini.
Si sono seduti entrambi sul sedile davanti.
Toccava a me. Sono salito con un passo abbastanza fermo.
«E’ in gamba!» ha detto una donna che stava accanto alle guardie.
L’atroce elogio mi ha rincuorato. Il prete è venuto a mettersi vicino a me. M’avevano fatto sedere sul sedile di dietro, con la schiena rivolta al cavallo. Estremo riguardo che mi ha fatto rabbrividire.
Mettono dell’umanità in quello che fanno.
Ho voluto guardarmi intorno. Guardie davanti, guardie dietro; poi la folla, la folla, ancora la folla.
Un mare di teste sulla piazza.
Un picchetto di guardie a cavallo m’aspettava sulla soglia del cancello del palazzo.
L’ufficiale ha dato l’ordine. La carretta col suo corteo s’è messa in movimento, ed è stato come se l’avesse spinta innanzi l’urlo della folla.
Abbiamo varcato il cancello. Non appena la carretta ha svoltato verso il Pont-au-Change, dal selciato ai tetti è esploso il fragore della piazza, e i ponti e le banchine hanno risposto come in un terremoto.
E’ stato lì che il picchetto in attesa s’è unito alla scorta.
«Giù i cappelli! Giù i cappelli!» gridavano mille bocche insieme.-Come davanti al re.
Allora, a mia volta ho riso orrendamente, e ho detto al prete:
«Loro i cappelli, e io la testa.»
Andavamo al passo.
Il quai aux Fleurs profumava di fiori; oggi è giorno di mercato. Le venditrici hanno abbandonato per me i loro mazzetti.
Di fronte, poco prima della torre quadrata che sta all’angolo del palazzo, ci sono delle osterie con le verande piene di spettatori, felici dei loro ottimi posti. Soprattutto le donne. Sarà una buona giornata per gli osti.
Noleggiavano tavoli, sedie, impalcature, carrette. Tutto rigurgitava di spettatori. Dei venditori di sangue umano gridavano a squarciagola: «Chi vuole dei posti?»
La rabbia contro la folla m’è salita dentro. Avrei voluto gridare:
«Chi vuole il mio?»
Ma la carretta avanzava. A ogni passo, dietro la folla si smembrava e con gli occhi smarriti io la vedevo riformarsi più avanti, nei punti in cui sarei passato.
Nell’imboccare il Pont-au-Change, per caso ho guardato indietro alla mia destra. I miei occhi si sono fermati sull’altro quai, sopra le case, su una torre nera, solitaria e irta di sculture, sulla cui cima ho visto due mostri di pietra seduti di profilo. Non so perché ho chiesto al prete il nome di quella torre.
«Saint-Jacques-la-Boucherie» ha risposto il boia.
Ignoro come ciò avvenisse; ma nella nebbia, malgrado la pioggia fine e bianca che rigava l’aria come il reticolo d’una ragnatela, niente di quanto m’accadeva intorno mi sfuggiva. Ogni dettaglio m’inviava la sua tortura. Mancano le parole per siffatte emozioni.
A metà circa del Pont-au-Change, così largo e ingombro che avanzavamo a stento, mi ha invaso violentissimo l’orrore. Ho temuto – l’ultima vanità! – di venir meno. Allora mi sono stordito da solo, per farmi cieco e sordo a tutto, tranne al prete di cui udivo appena le parole, inframmezzate dal rumore.
Ho afferrato il crocefisso, l’ho baciato.
«Abbiate pietà di me, mio Dio!» ho detto.- E ho cercato di annullarmi in quel pensiero.
Ma ogni sobbalzo della dura carretta mi scuoteva. Poi d’improvviso mi son sentito addosso un gran freddo. La pioggia mi aveva attraversato gli abiti e mi bagnava la pelle dalla testa attraverso i capelli tagliati corti.
«Tremate di freddo, figliolo?» mi ha chiesto il prete.
«Si» ho risposto.
Ohimè, non soltanto per il freddo.
Alla svolta del ponte, delle donne si sono impietosite per la mia giovinezza.
Abbiamo imboccato il fatale quai. Cominciavo a non veder più nulla, a non sentir più nulla. Quello voci, quelle facce alle finestre, sulle porte, alle inferiate dei negozi, sui bracci dei lampioni; quegli spettatori avidi e crudeli; quella folla ove tutti mi conoscono e in cui io non conosco nessuno; questa strada lastricata, murata di volti umani… Ero sconvolto, inebetito, fuori di me. E’ insopportabile il peso di tanti sguardi fissi su di voi.
Vacillavo sul sedile, senza neppur prestare attenzione al prete e al crocefisso.
Nel tumulto che m’avvolgeva, non distingueva più le grida di pietà dalle grida di gioia, le risa dai lamenti, le voci dal rumore; tutto era rumore, un rumore che mi risuonava nella testa come un’eco di ottoni.
I miei occhi leggevano meccanicamente le insegne dei negozi.
D’un tratto mi ha preso la strana curiosità di girare la testa per vedere dove stavo andando. Era un’ultima bravata dell’intelligenza. Ma il corpo non ha voluto saperne; la mia nuca s’è paralizzata, quasi morta anzitempo.
Scorsi a sinistra, oltre il fiume, una delle due torri di Notre-Dame che , vista da quel punto, nasconde l’altra. Era la torre con la bandiera. Zeppa di gente, che doveva veder bene.
E la carretta andava, andava, e i negozi passavano, e le insegne si succedevano, scritte, dipinte, dorate, mentre la gentaglia rideva e scalpitava nel fango, e io mi lasciavo portare come un addormentato che s’affida ai sogni.
Ma allo svoltare di una piazza, la serie di negozi che mi sfilava davanti s’è interrotta; il grido della folla s’è fatto più vasto, più stridulo, e ancor più gioioso; di colpo la carretta s’è fermata, e io per poco non sono caduto con la faccia in giù sulle assi del piancito. Il prete mi ha sorretto. «Coraggio!» ha mormorato. – Allora hanno portato una scala sul retro della carretta; il prete mi ha dato il braccio, sono sceso, ho fatto un passo, poi mi sono girato per farne un altro, e non ci sono riuscito. Tra i due lampioni dal quai ho visto come una cosa sinistra.
Sì, era vera!
Mi sono fermato, come se già vacillassi sotto il colpo.
«Ho un’ultima dichiarazione da fare!»ho gridato debolmente.
Mi hanno fatto salire qui.
Ho chiesto che mi lasciassero scrivere le ultime volontà. Mi hanno slegato le mani, ma la corda è pronta qui vicino, e il resto è giù.
Un giudice, un commissario, un magistrato –ignoro a quale razza appartenga- è appena salito da me.
Gli ho chiesto la grazia a mani giunte, trascinandomi sulle ginocchia. Mi ha risposto con un tragico sorriso se quello era tutto ciò che avessi da dirgli.
«La grazia! La grazia!» ho ripetuto «o per pietà, cinque minuti ancora!»
Chissà, arriverà forse! E’ tremendo morire così alla mia età! Di grazie che arrivano all’ultimo momento, se ne son viste spesso. E a chi se non a me, signore, si deve dar la grazia?
Dannato boia! S’è avvicinato al giudice per dirgli che l’esecuzione va fatta a una cert’ora, che l’ora si avvicina, che il responsabile è lui, e che tra l’altro piove e c’è il rischio della ruggine.
«Sì, per pietà! Un minuto per attendere la grazia! altrimenti mi difendo! mordo!»
Il giudice e il boia sono usciti. Sono solo. – Solo con due guardie.
Oh! L’immondo popolo con le sue grida di iena! – E se non riuscissi a sfuggire? se non mi salveranno? se la mia grazia?... Impossibile che non mi diano la grazia!
Ah, miserabili! Mi sembra che salgano la scala… LE QUATTRO.”



L’IDIOTA: “ Quell’uomo una volta fu portato sul patibolo, insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte per fucilazione, per un reato politico. Una ventina di minuti dopo gli fu letta la sentenza di grazia e gli venne commutata la pena: però nell’intervallo di tempo tra le due sentenze, se non venti almeno quindici minuti, lui visse con l’assoluta certezza che d’un tratto, entro pochi minuti, sarebbe morto. Mi interessava immensamente ascoltarlo, quando a volte ricordava le sue sensazioni di allora, e talvolta gli facevo ripetere il racconto, ponendogli molte domande. Ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. A una ventina di passi dal patibolo, presso cui stavano la folla e i soldati, erano stati piantati tre pali, siccome i condannati erano parecchi. Condussero i primi tre ai pali, li legarono, li vestirono con gli abiti mortuari (lunghe tuniche bianche), e infilarono loro dei cappucci bianchi fin sugli occhi, perché non vedessero i fucili; dopo di che di fronte a ogni palo si schierò un plotone di alcuni soldati. Il mio conoscente era l’ottavo, e perciò gli sarebbe toccato andare al palo con il terzo turno. Il prete benedisse tutti con la croce. Significava che restavano da vivere non più di cinque minuti. Lui diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, un’immensa ricchezza; gli pareva di poter vivere tante vite in quei cinque minuti, che per il momento non doveva ancora pensare all’ultimo istante, e prese anche delle decisioni: calcolò il tempo per dare l’addio ai suoi compagni, e dispose per questo due minuti; altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e il resto per guardarsi intorno per l’ultima volta. Ricordava molto bene di aver preso precisamente queste tre decisioni e di aver suddiviso il tempo proprio così. Moriva a ventisette anni, sano e forte; ricordava che nel salutare i compagni, a uno di loro aveva posto una domanda che non c’entrava nulla, e si era anche molto interessato alla risposta. Dopo che ebbe dato l’addio ai compagni vennero i due minuti che aveva destinato a pensare a se stesso; sapeva già prima a che cosa avrebbe pensato: aveva sempre desiderato figurarsi nel modo più rapido e chiaro possibile quel che sarebbe accaduto: lui adesso esisteva e viveva, ma in capo a tre minuti sarebbe stato già un non so che, qualcuno, o qualcosa, ma chi? E dove? Pensava di risolvere tutto questo in quei due minuti! Non lontano c’era una chiesa, e il suo tetto dorato brillava sotto il sole splendente. Ricordava di aver fissato molto intensamente quella cupola, e i raggi che vi si riflettevano: non poteva staccarsi dai raggi, gli pareva che quei raggi sarebbero stati la sua nuova natura, e che tre minuti dopo sarebbe in qualche modo confluito in essi… L’incertezza e la repulsione verso quell’ignoto che sarebbe diventato e che stava proprio per giungere erano tremende; ma lui diceva che in quel momento niente era per lui più penoso dell’incessante pensiero: “Oh, poter non morire! Poter far tornare indietro la vita: che eternità! E tutto questo sarebbe mio! Allora trasformerei ogni minuto in un intero secolo, non ne perderei niente, terrei in conto ogni minuto, per non sprecare invano nemmeno più un istante!”. Diceva che questo pensiero alla fine gli era degenerato in una rabbia tale da fargli desiderare che gli sparassero al più presto.»

Victor Hugo. Biografia.


Victor-Marie Hugo (Besaçon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia. Seppe tenersi lontano dai modelli malinconici e solitari che caratterizzavano i poeti del tempo, riuscendo ad accettare le vicissitudini non sempre felici della sua vita per farne esperienza esistenziale e cogliere i valori e le sfumature dell'animo umano.I suoi scritti giunsero a ricoprire tutti i generi letterari, dalla poesia lirica al dramma, dalla setira politica al romanzo storico e sociale, suscitando consensi in tutta Europa.
Nasce il 26 febbraio 1802 a Besaçon nella Franca Contea, dove il padre Léopold-Sigismond Hugo (1773-1828), conte napoleonico e militare dell'esercito di Giuseppe Bonaparte, si trova di guarnigione, e lo segue poi, insieme alla madre Sophie Trébuchet (1772-1821) e ai fratelli Abel Hugo (1798-1855) e EugéneHugo (1800-1837), prima a Parigi, poi anche a Napoli e in Spagna: a Napoli il padre riveste un ruolo decisivo nella cattura del brigante Fra Diavolo e per questo viene nominato governatore di Avellino; in Spagna ottiene da Giuseppe Bonaparte il grado di generale. Il giovane Victor manterrà sempre memoria di questi luoghi visti da bambino.Dal 1813 tuttavia i suoi genitori si separano e la madre, insieme al generale Victor Fanneau de la Horie, si stabilisce a Parigi. Qui Hugo frequenta il Politecnico dal 1815 al 1818, per volere del padre, ma ben presto abbandona gli studi tecnici per dedicarsi alla letteratura.
Scrive le Odi, che furono la sua prima composizione letteraria. Insieme ai fratelli fonda il foglio Le Conservateur littéraire (1819), e nello stesso anno vince un concorso dell'Académie des Jeux floraux. Inizia poi a frequentare il liceo Louis-le-Grand, e partecipa agli incontri del Cenacolo di Charles Nodier, culla del Romanticismo nascente. Scrive poi Odi et poesie diverse (1822) e molti altri scritti, fino a Odi e ballate, che gli valgono una rendita di mille franchi da parte del re LuigiXVIII.
Il 12 ottobre del 1822 sposa, nella chiesa di Saint-Sulpice di Parigi, Adèle Foucher, una sua amica d'infanzia; nasceranno cinque figli:Léopold (16 luglio – 10 ottobre 1823); Léopoldine (28 agosto 1824 – 4 settembre 1843); Charles (4 novembre 1826 – 13 marzo 1871); François–Victor (28 ottobre 1828 – 26 dicembre 1873); Adèle (24 agosto 1830 – 21 aprile 1915), l'unica a sopravvivere al padre ma che trascorrerà molti anni in una casa di riposo a causa del suo stato mentale alterato.
La scoperta, dopo qualche anno, del tradimento della moglie con l'amico di famiglia Sainte-Beuve lo porterà a condurre una vita di libertinaggio; sua amante per circa cinquant'anni sarà Juliette Drouet, un'attrice teatrale conosciuta durante le prove di Lucrezia Borgia, nel 1833. Juliette Drouet gli restò sempre vicina (salvandolo anche dalla prigione in occasione del colpo di stato di Napoleone III) nonostante le molteplici infedeltà dell'amante: per lei scriverà molti poemi, tra cui un Libro dell'anniversario compilato dai due ogni anno, il giorno dell'anniversario, appunto, del loro primo incontro. Una svolta epocale nella storia della letteratura avviene nel 1827, con l'uscita del dramma storico Cromwell, considerato il manifesto delle nuove teorie romantiche. Nella lunga prefazione, Hugo si oppone alle convenzioni del ed espone le sue teorie sul teatro e sulla letteratura in generale, che metterà poi in pratica nel dramma Hernani, del 1830, data che segna, convenzionalmente, l'inizio del Romanticismo in Francia.
Inizia un periodo molto produttivo per lo scrittore: pubblica un romanzo, Notre-Dame de Pris, del 1831, accolto da un immediato e amplissimo successo; raccolte di poesie, Le foglie d'autunno dello stesso anno e I canti del crepuscolo del 1835; altri drammi, come per esempio Ruy Blas nel 1838. Incontra Hector Berlioz, Chateaubriand, Franz Liszt, Giacomo Meyerbeer; nel 1841 viene ammesso all'Académie française, dove occupa il seggio numero 14.
Nel 1843 muoiono tragicamente la figlia Léopoldine e il genero Charles Vacquerie, annegando nel corso di una gita in barca; Hugo apprende la notizia al rientro da una vacanza, leggendola sul giornale Le Siècle. La tragedia, unita all'insuccesso del suo lavoro teatrale I Burgravi del 1845, gli causa una grave depressione che lo tiene lontano dal mondo letterario per dieci anni.
Intanto viene nominato Pari di Francia dal re Luigi Filippo d'Orléans. Nel 1848 entra a far parte come deputato dell'Assemblea Costituente, ma il colpo di stato che nel 1851 portò al potere Napoleone III segna l'inizio del suo declino politico: dapprima Hugo appoggia l'elezione del giovane Luigi-Napoleone Bonaparte alle presidenziali, ma poi — quando il nuovo presidente, futuro imperatore, inizia a prendere provvedimenti anti-liberali quali l'abrogazione della legge elettorale del 1850, riducendo di un terzo gli aventi diritto al voto — ne prende le distanze; inutile sarà il tentativo del Comitato di resistenza repubblicana, di cui fa parte insieme a Schœlcher, per sollevare la popolazione parigina: a Hugo, strenuo difensore di un regime liberale, non resta che attaccarlo con scritti e discorsi contro la miseria e le repressioni, che diventavano nel frattempo sempre più intolleranti.
Dopo il 2 dicembre 1851, Hugo deve partire per l'esilio. Parte inizialmente per Bruxelles, poi si trasferisce nell'isola di Jersey e infine a Guernesey, rifiutando l'amnistia proclamata dall'imperatore.
Inizia qui a prendere forma la sua mitica figura poetica e ideale di "Padre della patria in esilio"; gli anni trascorsi a Guernesey lo rendono così famoso che gli arrivano lettere indirizzate a "Victor Hugo — Oceano". Riprende la sua attività letteraria nel segno della satira politica, nella raccolta di poemi I castighi (1853), che prende di mira il Secondo Impero; il ricordo del passato e in particolare della figlia Léopoldine affiora nella raccolta Le contemplazioni 1856); questi sono anche gli anni dell'impegno su un piano politico più alto, idealizzato, che dà vita a La leggenda dei secoli (pubblicata in tre parti tra 1859, 1877 e 1883), che ripercorre la storia dell'umanità dalla Genesi al XIX secolo, così come a I miserabili, romanzo del 1862, I lavoratori del mare del 1866 e L'uomo che ride del 1869.
La vita non gli risparmiò i dolori: nel 1855 muore il fratello Abel, nel 1863 la figlia Adèle impazzisce scappando in Canada, nel 1868 muoiono anche la moglie e alcuni nipoti; in tutte queste disgrazie ha però sempre accanto la fedele Juliette.
A partire dagli anni sessanta viaggia per tutto il lussemburgo e percorre il reno, ma nel 1870 viene espulso dal Belgio per aver dato asilo a dei communard ricercati nella capitale francese, e trova rifugio di nuovo nel Granducato, per tre mesi, e in seguito a Vianden, Diekirch e Mondorf-les-Bains (dove segue una cura termale).
Il suo rientro in patria avviene il 5 settembre 1870, dopo la caduta di Napoleone III e l'instaurarsi della Terza Repubblica francese: Hugo è accolto da una folla acclamante ed entusiastica, e la sua casa diventa nuovamente luogo di incontro tra letterati; fino alla sua morte, rimarrà un nume tutelare della repubblica restaurata.
Riprende in questi anni la produzione letteraria con il romanzo Novantatré (1874); scrive anche poesie, alcune riguardanti la sua vita famigliare, come I miei figli (1874), e altre satirico-politiche, come Il papa (1878) e Torquemada (1882), un'opera sul fanatismo dell'inquisizione. Nel 1876 ritorna a far parte del Senato.
Nel 1878 è colpito da una congestione cerebrale, mentre i festeggiamenti per il suo ottantesimo compleanno — pubblicamente celebrati — vengono offuscati dalla morte di Juliette Drouet. Muore il 22 maggio 1885, e la sua salma viene esposta per una notte sotto l'Arco di Trionfo e vegliata da dodici poeti, anche se, in ottemperanza alle sue ultime volontà, le esequie hanno luogo nel corbillard des pauvres. Il 1° giugno, dopo aver esitato per il cimitero del Père Lachaise, è portato al Pantheon appena inaugurato. Si calcola che tre milioni di persone siano venute a rendergli omaggio in quell'occasione, mentre cronisti riportano che le prostitute della città per quella notte lavorarono gratuitamente.

lunedì 6 ottobre 2008

L'ultimo giorno di un condannato a morte. Victor Hugo.


È il 1829 l'anno che vede pubblicato per la prima volta questo scritto di Victor Hugo, ma l'autore rimane anonimo. L'Europa sta passando tempi in cui la ragione dell'uomo sembra poter portare il mondo verso una sorte migliore, priva di guerre ed inutili barbarie: eppure, in Place de Grève, vengono giustiziati uomini, sotto i colpi della ghigliottina, davanti ad un pubblico di benpensanti che paga i posti a sedere sulle terrazze intorno alla piazza per vedere meglio rotolare la testa del condannato, come una sorta di cinema dell'Ottocento.
“Tutta quella gente riderà, batterà le mani, applaudirà. E tra quegli uomini, liberi e ignoti ai carcerieri, che corrono euforici verso un’esecuzione, tra quella folla di teste che coprirà la piazza, più d’una testa sarà predestinata a seguire prima o poi la mia, nel cesto rosso. Più d’uno che ci viene per me, ci andrà per sé.
In un punto preciso di place de Grève, c’è per quegli esseri fatali un luogo fatale, un centro d’attrazione, una trappola. Vi girano attorno finché non vi sono dentro.”
[1]

Victor Hugo considera il Dernier jour una sorta di pubblica arringa travestita da racconto, in favore dell’abolizione della pena di morte, abbracciando dichiaratamente il pensiero di Beccaria (Dei delitti e delle Pene, 1764).
Il romanzo parla degli ultimi giorni di un condannato di cui non sappiamo nulla: vengono dati pochi indizi sul crimine commesso, sull'età, sull'estrazione sociale, come per far rappresentare al suo condannato la totalità dei giustiziati. Che valga per un re o per l'ultimo brigante del popolo, la vita non può essere tolta a nessuno se non da Dio.
La presunta istantaneità e l’altrettanto presunta qualità indolore di questa morte, che oggi qualcuno definirebbe ‘chirurgica’, avevano per qualche decennio suffragato l’ipotesi che la ghigliottina operasse sui rei, per così dire, beneficamente: uccidendo il corpo, ma senza inferirvi. Una delle conseguenze di questa morte addolcita fu senz’altro l’accentuarsi del carattere pubblico dell’esecuzione: la diminuzione del dolore nel condannato bastava da sola a giustificare la presenza d’un pubblico d’ogni età – persino di un pubblico per così dire sensibile.

“Dicono che non sia nulla , che non si soffra, dicono che sia una fine dolce, che la morte in questo modo sia molto semplificata.
Che significa, allora in quest’agonia di sei settimane? Che significano le angosce di questo giorno irreparabile, che scorre così adagio e così in fretta? E questa scala di torture che sfocia nel patibolo?
Ma a quanto pare, soffrire non è questo.
Che il sangue s’esaurisca a goccia a goccia, o che d’intelligenza si spegna un pensiero dopo l’altro, non sono forse due identici spasmi?” (ibidem, pag.70)

Ciò che resta vivido durante la lettura, è la continua tortura del tempo. Questo tempo in corsa, e che alla fine ruba all’altro la vita, se non ha un volto non manca però d’imporre una presenza; è contenuto in ogni frase, orientando ritmicamente la cadenza: il movimento del linguaggio segue quella del pendolo.

“L’una e un quarto.
Ecco che cosa provo in questo momento:
Un violento dolore alla testa. Freddo alle reni, la fronte bruciante. Ogni volta che m’alzo o mi piego, è come se nella testa si agitasse un liquido che manda il cervello a sbattere contro le pareti del cranio.
Ho degli scatti convulsi, e come in preda a una scossa elettrica la penna di tanto in tanto mi cade dalla mano.
Gli occhi mi bruciano come fossi in mezzo al fumo.
I gomiti mi dolgono.
Ancora due ore e quarantacinque minuti, e sarò guarito.” (ibidem, pag. 70)

L’incedere della parola non può non coniugarsi mirabilmente con l’antitesi. La morte e la vita, la prigionia e la libertà, il chiuso e l’aperto, il buio e la luce, il sogno e la realtà, il basso e l’alto, il prima e il dopo la morte, il condannato a il re, sono le principali coppie avversative attraverso le quali il monologo del Dernier jour si frantuma in una miriade di frasi, spesso brevi che procedono l’una rispetto all’altra talvolta per dissonanza oppure per risonanza.

“In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio. Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la pioggia le mille facce urlanti della gente ammassata sulla rampa del grande scalone del palazzo,…” (ibidem, pag.82).
[1] Hugo V. (1828)L’ultimo giorno di un condannato a morte,Mondadori, Milano, 1998, pag.79.

mercoledì 1 ottobre 2008

Dostoevskij. Stile e linguaggio.


Nelle sue opere, Dostoevskij è molto attento alle descrizioni di ambienti, ma ciò che risalta con maggior forza sono i dibattiti di idee, ricchi di tensione morale e religiosa.
Lo scrittore russo ha uno stile originale, le descrizioni non sono mai eccessivamente lunghe e noiose, ma vengono inserite nelle osservazioni dei vari personaggi; il lettore viene coinvolto nella narrazione, sentendosi parte del racconto, come se fosse lui stesso a poter raccontare in prima persona gli eventi; e nello tempo il lettore è a conoscenza della vita interiore dei protagonisti, come se il fuori e il dentro, l’esteriorità e l’interiorità, il pubblico e il privato fossero un tutt’uno.
Il linguaggio si caratterizza dal ritmo ossessivo che Dostoevskij ottiene mediante la brevità delle frasi, grazie alla ripetizione continua del nome che indica la persona del verbo: in questo caso il pronome di prima persona ‘Ja’, io.
“Il linguaggio si è spezzato e la sua frammentarietà rispecchia la vita psichica nelle sue oscillazioni e mutevolezze, nelle sue inclinazioni ossessive, nelle sue fratture emozionali, nella sua scissione tra pensiero e volontà.” (Bucelli, Fiorentino, 1988, pag.52).
Lo stile del discorso, frammentario e ossessivo, somiglia molto alla struttura e allo stile di un colloquio analitico, dove il paziente parla di sé, associando liberamente i suoi pensieri. Inoltre questo iterare ossessivo di ‘io’ ci rimanda ad un’espressione tipica del senso di colpa: la confessione dei peccati; e questo permette di ipotizzare un grande senso di colpa che ha accompagnato per tutta la vita Dostoevskij.

mercoledì 17 settembre 2008

Vado in vacanza!

Domani vado a Firenze da sola per qualche giorno...musei, chiese e palazzi...nient'altro! Ho proprio bisogno di staccare!
Poi la prossima settimana andrò qualche giorno in Olanda con mio fratello a trovare i miei parenti...
il tutto per dirvi che non riuscirò inserire nuovi post di letteratura fino al 30 Settembre.

Ciao a tutti!

:)

domenica 14 settembre 2008

Oblomov. Trama.


Oblomov è un giovane proprietario di campagna venuto a Pietroburgo per studiare. La sua fanciullezza è passata tutta nel suo possedimento, “Oblomovka”, dove la vita patriarcale era ancora in pieno fiore, e dove egli è stato educato in modo da non conoscere che cosa sia lo spirito d’iniziativa e l’attività personale. A Pietroburgo come studente egli sembra per un po’ lasciarsi trascinare dalla vita dei compagni idealisti e insieme uomini d’azione, ma ben presto, non avendo nessuna necessità di lavorare per crearsi l’indipendenza, per conquistare la libertà, si abitua all’idea che gli altri lavorino per lui e si lascia vincere dall’infingardaggine che gli hanno inoculato nel sangue gli anni pacifici della fanciullezza trascorsa in “Oblomovka”.
A 33 anni Oblomov giace nell’inerzia più totale, trascorrendo il giorno a letto immerso in sterili ruminazioni. Dall’inezia lo scuote un amico di antica data, Stolz, che lo stima profondamente, ne apprezza le qualità morali intellettuali e ricorda i comuni progetti giovanili idealistici. Per effetto della sollecitazione di Stolz, Oblomov torna a frequentare il mondo. Non è entusiasta di questa nuova vita, che gli sembra vacua e tediosa più della solitudine in cui era immerso, finchè non incontra una giovane donna, Ol’ga, di cui si innamora perdutamente. L’amore che Olga riesce a suscitare in lui sembra per un momento essere lo strumento di quest’opera di liberazione e di rigenerazione. Oblomov e Ol’ga stanno per sposarsi, ma questo passo decisivo, che richiede da Oblomov esplicazione di attività pratica, movimento, interesse immediato, vivace, è quel che spaventa Oblomov, che ricade nella sua apatia, nella sua monotona indolenza. Affida la cura della sua proprietà che rende sempre meno, a due furfanti che, profittando della sua ingenuità, lo portano quasi sul lastrico. Neppure l’amore è riuscito a rendere attuale quel futuro Oblomov sognato dala fanciulla, che nella realizzazione di questo sogno vedeva lo scopo della propria vita. Oblomov infatti, si affida totalmente ai suoi servi (Zachar e la moglie), e alla padrona di casa dell’appartamento che occupa, Agaf’ja Matveeyna, una donna semplice che si innamora segretamente di lui. Essa lo cura, lo protegge, lo venera, senza chiedergli nulla in cambio. Lentamente Oblomov giunge a ricambiarla, la sposa, ha un figlio. Circondato dall’affetto di persone semplici, egli sembra trovare pace, passando le giornate in veste da camera sdraiato su di un divano. Ol’ga sposerò l’amico di Oblomov, Stolz, un personaggio di dubbia vitalità e realtà artistica, ma che in ogni modo il romanziere ha messo di fronte al suo eroe per mostrare che cosa dovesse essere la vita attiva di un uomo nuovo. Stolz e Ol’ga realizzano tra loro un’unione perfetta, fanno un ultimo tentativo di sottrarre l’amico ad una vita che essi giudicano indegna delle sue qualità, proponendogli di andare a vivere accanto a loro. Oblomov rifiuta. Alla sua morte il figlio va a vivere con Stolz e Ol’ga.




lunedì 8 settembre 2008

I demoni.


L’uomo del sottosuolo è un ‘prodotto’ del mondo moderno e non si riconosce nel mondo in cui vive ma si oppone ad esso come un nemico. “Egli possiede un’indole estremamente solitaria che non accetta i valori della società in cui vive, non riesce ad entrare in sintonia con un mondo mediocre e corrotto e si rifugia in una dimensione interiore.” (Bucelli, Fiorentino, 1988, pag.48)
Inevitabilmente, in questo stato di isolamento, il confronto tra universo interiore ed esteriore non esiste, e di conseguenza si altera la percezione della realtà stessa, che è condizione necessaria per la circoscrizione e il ridimensionamento del senso di onnipotenza del soggetto. Pertanto, una situazione di così intensa introversione porta con sé il pericolo dell’onnipotenza-impotenza, che il soggetto arrivi tragicamente a presumere di poter intervenire e modificare la realtà per il tramite del proprio universo fantastico.
La società segreta di rivoluzionari, capeggiati da Piotr Stepanovic, rappresenta, per Dostoevskij, l’umanità perduta degli ossessi, degli indemoniati che hanno smarrito la nozione del bene e del male, del lecito e dell’illecito, e, disancorati da tutti i loro legami naturali, da Dio, dal popolo, dalla terra, si precipitano fatalmente verso un abisso che li inghiotte.

sabato 30 agosto 2008

Memorie dal sottosuolo.


Le memorie dal sottosuolo costituiscono una tappa centrale nella vicenda artistica e spirituale di Dostoevskij. Lo scrittore, quarantaduenne, è tornato da soli due anni dalla deportazione e dal confino a cui era stato condannato nel ’49 per le sue simpatie socialiste.
Con le Memorie dal sottosuolo lo scrittore fonda la narrazione su un’altra dimensione del soggetto e, per la prima volta, l’interiorità diviene il nodo focale del racconto, da cui è esclusa ogni connotazione sociale oggettiva.
Il narratore comincia presentandosi come un uomo sgarbato, irascibile, che digrigna i denti ai postulanti quando si presentano nell’oscuro ufficio dove lui lavora. Dopo aver affermato di essere un impiegato cattivo, ritira questa dichiarazione e dice di non essere nemmeno questo:

“Non soltanto non ho saputo essere cattivo, ma non ho saputo essere niente di niente: né buono né cattivo, né canaglia né galantuomo, né eroe né insetto.”[1]

Il tema successivo è la consapevolezza umana, delle proprie emozioni (la consapevolezza, non la coscienza); “dopo ogni disgustoso atto che ha commesso torna strisciando nella propria tana e comincia a godersi l’esecranda voluttà della vergogna, del rimorso, il piacere della propria bassezza, della degradazione”(ibidem, pag.153). È un piacere complesso. L’uomo-topo si sta riempiendo la vita di emozioni fasulle non avendone di reali; poi il protagonista, o il suo creatore, trova una serie di idee che ruotano intorno alla parola ‘vantaggio’; sono tutti discorsi privi di senso, ovviamente; e come l’uomo-topo non ha saputo spiegarci le gioie della degradazione e della sofferenza, così non ci spiega neppure i vantaggi dello svantaggio. L’uomo-topo evoca una futura immagine di prosperità universale, un palazzo di cristallo per tutti, e qui viene svelato in cosa consiste il misterioso vantaggio: la propria scelta libera e indipendente, il proprio capriccio, sia pure folle. In altre parole l’uomo non aspira a un tornaconto razionale, ma semplicemente a scegliere autonomamente –qualunque cosa scelga- anche a costo di distruggere le strutture della logica, della statistica, dell’armonia e dell’ordine. Poi riprende il tema della distruzione; “forse, dice, l’uomo preferisce distruggere che creare. Forse,dice, l’uomo preferisce distruggere che creare. Forse non è il raggiungimento di una meta che lo attira ma il procedimento che a essa conduce. Forse, dice l’uomo topo, l’uomo ha paura di riuscire. Forse gli piace la sofferenza. Forse la sofferenza è l’unica origine della consapevolezza. Forse l’uomo, per così dire, diventa un essere umano quando comincia a essere consapevole della propria consapevolezza di soffrire.” (ibidem, pag. 156).
I rapporti sociali non avranno più quella caratteristica rappresentazione oggettiva, ma saranno una proiezione, un riflesso della dimensione interiore. L’uomo del sottosuolo è un escluso, un reietto, un individuo che vive lontano, al di fuori della vita collettiva.
In quanto figura ambigua dell’interiorità, il ‘sottosuolo’ traccia l’orizzonte tragico della solitudine umana e si costituisce come luogo inaccessibile nel quale la soggettività si è rinchiusa; l’uomo del sottosuolo non è un eroe in senso romantico, è piuttosto un perdente, un antieroe, e il sottosuolo è il luogo del suo esilio e dell’espiazione della colpa. Così l’isolamento, il ripiegamento su se stessi e il colloquio esclusivo con la propria interiorità vengono ad assumere il valore di un affronto alla legge collettiva, una violazione contro il mondo degli uomini.
L’interiorità rappresenta tutto l’universo dell’uomo, a tal punto che non esiste più differenza tra mondo esterno e mondo interno:

“Il mio alloggio era il mio eremo, il mio guscio, il mio astuccio, nel quale mi nascondevo a tutta l’umanità.”

La vita interiore crea spontaneamente la situazioni e dirige l’azione nella dimensione del fantastico, ma il reale è naturalmente diverso. Per alcuni individui questa attitudine a fantasticare sulle circostanze future assume una parte sempre più importante nella vita psichica, al punto di diventare determinante nel rapporto con la realtà. La vita assume allora un aspetto irreale e si può aprire una frattura insanabile tra mondo interiore e mondo esterno, dove l’interiorità si dilata fino a diventare la condizione esistenziale autentica dell’individuo:

“In generale ero sempre solo. A casa, in primo luogo, e per lo più leggevo. Avevo voglia di soffocare con sensazioni esteriori tutto ciò che ribolliva incessantemente dentro di me. E fra le sensazioni esteriori rientrava tra le mie possibilità soltanto la lettura.” (ibidem, pag. 59).
[1] Dostoevskij, (1864), Memorie dal Sottosuolo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1987, pag.7.

martedì 26 agosto 2008

Memorie da una casa di morti.


In questo romanzo, scritto da Dostoevskij nel 1862, comincia a delinearsi la concezione filosofica dello scrittore sul ‘male’, come fatto inseparabile dalla vita.
In Siberia, mentre gli altri condannati politici si erano tenuti separati dagli altri ergastolani condannati per delitti comuni, Dostoevskij aveva reagito affrontando le stesse fatiche fisiche dei forzati e facendo ogni sforzo per assimilarsi ad essi, fino a sentirsi uno di loro. Così egli troverà tra i suoi compagni condannati anche degli esseri sorprendentemente docili e miti, perfino capaci di generosità.
Per lo scrittore non esiste il ‘tipo’ del criminale, colui che – come sostengono alcuni studiosi di criminologia – avrebbe addirittura le caratteristiche somatiche. Il crimine è un atto staccato da chi lo commette, ciascuno ha in sé la possibilità di compierlo; colui che compie un delitto non fa che rendersi interprete del male che l’umanità intera si porta dentro, in quanto il male non è un concetto separabile dalla vita. Tutto ciò non elimina, tuttavia, la particolare responsabilità del criminale, né la necessità della condanna. Infatti essa non dovrà essere intesa come una punizione, ma come unica possibilità per il criminale di annullare il suo debito con la società e di tornare fra la gente della vita comune, da cu il crimine lo separa.Dostoevskij, in Siberia, ha un immenso campo di osservazione; la sua capacità introspettiva si amplia molto, egli non perde un solo particolare della psicologia del forzato e raccoglie un materiale così ricco che alimenterà il suo pensiero per tutto il resto della sua vita.


UOMINI RISOLUTI: LUĈKA.

" [...] Come se, avendo una volta varcato il limite a lui vietato, cominciasse ormai a compiacersi che non c'è per lui più nulla di sacro; come se fosse trascinato a scavalcare di colpo ogni legalità e autorità e a deliziarsi della più sfrenata e illimitata libertà, a godere del sentirsi mancare il cuore per lo sgomento che non può non provare di fronte a se stesso. Egli sa inoltre che lo attende un terribile supplizio. Tutto ciò è forse simile alla sensazione che prova un uomo, quando, dall'alto di una torre, si sente attirato verso l'abisso che ha sotto i piedi, tanto che alla fine sarebbe egli stesso felice di buttarsi a capofitto: giù alla svelta, e sia un affar finito! E tutto questo accade perfino agli uomini finora più pacifici e meschini. Taluno di essi, in questa ebbrezza si dà perfino delle arie. Quanto più depresso era in passato, tanto più fortemente è tratto ora a pavoneggiarsi, a incutere paura. Egli si bea di questa paura, si compiace perfino del ribrezzo che suscita negli altri. Ostanta una specie di temerità, e un simile 'temerario' a volta attende egli stesso il castigo con impazienza, attende che decidano la sua sorte, perchè a lui stesso riesce infine gravoso il far mostra di tale ostentata temerità. E' curioso che per lo più tutto questo stato d'animo, tutta questa ostentazione dura esattamente fino al patibolo e poi è come troncata di netto: quasi si trattasse in realtà di un termine formale, si direbbe, fissato in precedenza da apposite norme. Allora l'individuo tutt'a un tratto si ammansa, si fa piccino, diventa una specie di cencio. Sul patibolo piagnucola, chiede perdono al popolo. [...]". (Dostoevskij, F. (1862), Memorie di una casa morta, p.153, Rizzoli Editore, Milano, 1950.)

Janacek - LA CASA DEI MORTI - Finale atto primo


lunedì 18 agosto 2008

Meme di Lauce.

Descrivermi con 5 foto non è semplice, ma quello che mi sono chiesta non è se questa descrizione sia sufficiente (anche perchè non lo sarebbe con infinite foto), ma se le interpretazioni, che inevitabilmente vengono fatte da coloro che leggono questo Meme, non modifichino il significato che io ho attribuito alle parole che ho usato per descrivermi.


Questo è un KRENTENBOL! Ovvero un panino all'uvetta che si trova solo in Olanda! E' morbidissimo, dolce al punto giusto e profumato, con un sacco di uvetta...
Rappresenta il mio carattere molto forte e testardo che avevo da piccola, ogni volta che accompagnavo mia mamma la supermercato esigevo un Krentebol, e non c'erano modi di convincermi a rifiutare...mi fermavo in mezzo al supermercato dopo aver rotto la palle per un bel po', e urlavo molto forte: "Kreeenteboooool!" Non avevo paura di nessuno. Sapevo già da piccola come ottenere ciò che volevo.
E' anche un ricordo della mia prima infanzia in Olanda.
Ancora adesso mi piace terribilmente.





La CIOCCOLATA (liquida, solida, bianca, nera, dolce, amara, calda, fredda) è una delle invenzioni più belle che siano mai state fatte!
Mi piace sempre.





LA PRINCIPESSA SISSI. Ho visto il film molte volte, quanto mi ha fatto sognare! Quei vestiti così belli, i palazzi, le carrozze, le finestre così alte, i drappeggi, le tavolate, l'etichetta da rispettare, gli intrighi, l'arredamento, il romanticismo, i sospiri, i valori, l'ottenere lottando, il coraggio, la bellezza, il fascino...
Mi piace moltissimo quell'atmosfera, ho sempre voluto diventare come Sissi...eh eh..forse sono nata nel secolo sbagliato!



'LA MEDITAZIONE' DI FRANCESCO HAYEZ.
Ho visto questo quadro per la prima volta quando ero in terza media, era il primo della mostra che ero andata a vedere con la classe, mi sono bloccata, ho provato una marea di sensazioni indescrivibili, i miei occhi sono diventati lucidi, avevo voglia di piangere, mi ero rispecchiata.
Sono io, sola in una stanza dove non c'è luce, malinconica e triste, arrabbiata e delusa, forte e combattiva, sensibile sotto il mio comportamento spesso freddo, con un libro che avrò sempre con me, con il coraggio di gestire la croce, di allontanarla da me, mettendo la mia mente al di sopra di qualsiasi contenimento, per cercare un giorno di essere me stessa.



I LIBRI. Sono sempre stata molto curiosa e molto riflessiva. Amo i libri, li considero come un qualcosa di sacro, milioni di pensieri che compaiono agli occhi di chi ha sete di sapere, forme diverse, copertine liscie e ruvide dai colori in forte contrasto tra loro, odori che vengono sprigionati nel momento della loro apertura, epoche che si contaminano, storie che si ripetono ma che sono vissute in modo originale, colpi di scena, messaggi nascosti, ragionamenti, trasmissione di concetti, ritrovo di se stessi.
Leggere per me è un qualcosa di sublime, mi permette di estraniarmi dalla realtà in cui vivo, bloccare quello che io sono per un momento, e ritornare più ricca, più colta, più forte nei miei pensieri, più vicina alla comprensione di me stessa.
E' solo tramite i libri che possiamo vivere molte vite.
Oltre a Rò non conosco nessun blogger, chi si sia fermato a leggere questo meme e abbia voglia di mettersi alla prova si faccia avanti! Racconta chi sei con 5 foto!
Lauce.

giovedì 14 agosto 2008

Ivan Aleksandrovič Gončarov

Ivan Aleksandrovič Gončarov (in russo Иван Александрович Гончаров ), nasce a Simbirsk il 6 Giugno del 1812, in una agiata famiglia di mercanti; suo padre era un facoltoso statale.
Tra il 1817 e il 1830 riceve la sua educazione seguito, tra le mura domestiche, da un prete molto severo, ma estremamente colto, grazie al quale poté leggere poeti e scrittori russi, quali Cherasov, Ozerov, Deržavin, oltre alle opere storiche e resoconti di viaggio.
Nel 1831/1833 si iscrive alla facoltà di Filologia presso l’Università di Mosca; terminata questa esperienza, torna a Simbirsk dove entra nella burocrazia imperiale.
Tra il 1837 e il 1846 si trasferisce a Pietroburgo, dove trova lavoro presso il dipartimento del commercio estero del Ministero delle Finanze. È in questo periodo che conosce Majkov e Belinskij.
Nel 1847 pubblica il suo primo romanzo, Una storia in comune, seguito dal racconto, scritto secondo i dettami della scuola “naturale”, Ivan Savvič Podžabrin.
Tra il 1852 e il 1854 partecipa, in qualità di segretario, alla spedizione dell’ammiraglio Putjatin in Inghilterra, Africa, Cina e Giappone. Questa esperienza rappresenta la sua unica avventura che descrive poi in un resoconto di viaggio, La fregata Pallada, pubblicato nel 1858.
Nel 1855 pubblica il romanzo Oblomov, riscuotendo immediato e vasto successo.
Tra il 1856 e il 1867, rientrato a Pietroburgo, ricopre l’incarico di censore e parallelamente collabora con il giornale “La posta del nord”. Diviene poi membro del Consiglio per gli affari di stampa.
Tra il 1868 e il 1890, lasciato l’ufficio di censore e ritiratosi a vita privata, pubblica nel 1869 il suo terzo romanzo, Il burrone. Scrive poi brevi racconti e saggi critici, tra i quali il più significativo resta senz’altro Un milione di tormenti sulla commedia Che disgrazia l’ingegno! di Griboedov.

Scapolo irriducibile, muore solo, a San Pietroburgo il 27 Settembre 1891, lasciando i suoi beni alla vedova del suo domestico.

martedì 12 agosto 2008

L'Idiota




Il giorno dell’esecuzione si configurò all’interno della coscienza di Dostoevskij come una sorta di tempo dilatato eternamente presente; nelle ore che lo separano dall’esecuzione ha modo di rendersi conto di quanto la morte già gli appartenga entrando inevitabilmente in un mondo di terrore e di fantasie deliranti.
A distanza di molti anni Dostoevskij ricorda questo episodio ne L’idiota[1] :
“Quell’uomo una volta fu portati sul patibolo, insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte per fucilazione, per un reato politico. Una ventina di minuti dopo gli fu letta la sentenza di grazia e gli venne commutata la pena: però nell’intervallo di tempo tra le due sentenze, se non venti almeno quindici minuti, lui visse con l’assoluta certezza che d’un tratto, entro pochi minuti, sarebbe morto. […] Ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. […] Condussero i primi tre ai pali, li legarono, li vestirono con gli abiti mortuari (lunghe tuniche bianche), e infilarono loro dei cappucci bianchi fin sugli occhi, perché non vedessero i fucili; […] Significava che restavano da vivere non più di cinque minuti. Lui diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, un’immensa ricchezza; gli pareva di poter vivere tante vite in quei cinque minuti, che per il momento non doveva ancora pensare all’ultimo istante, e prese anche delle decisioni: calcolò il tempo per dare l’addio ai suoi compagni, e dispose per questo due minuti; altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e il resto per guardarsi intorno per l’ultima volta. […] Lui adesso esisteva e viveva, ma in capo a tre minuti sarebbe stato già un non so che, qualcuno , o qualcosa, ma chi? E dove? Pensava di risolver tutto in quei due minuti! Non lontano c’era una chiesa, e il suo tetto d’orato brillava sotto il sole splendente. Ricordava di aver fissato molto intensamente quella cupola, e i raggi che vi si riflettevano: non poteva staccarsi dai raggi, gli pareva che quei raggi sarebbero stati la sua nuova natura, e che tre minuti dopo sarebbe in qualche modo confluito in essi… L’incertezza e la repulsione verso quell’ignoto che sarebbe diventato e che stava proprio per giungere erano tremende; ma lui diceva che in quel momento niente era per lui penoso dell’incessante pensiero: ‘Oh, poter non morire! Poter far tornare indietro la vita: che eternità! E tutto questo sarebbe mio! Allora trasformerei ogni minuto in un intero secolo, non ne perderei niente, terrei in conto ogni minuto, per non sprecare invano nemmeno più un istante!’. Diceva che questo pensiero alla fine gli era degenerato in una rabbia tale da fargli desiderare che gli sparassero al più presto.”

[1] Dostoevskij, (1869), L’idiota, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995, pag.81.

sabato 9 agosto 2008

Vicenda della condanna a morte di Dostoevskij


Nel 1849 Dostoevskij fu arrestato dalla polizia zarista sotto l’accusa di cospirazione e in seguito fu condannato a morte insieme ai suoi compagni. La sentenza fu eseguita in tutti i suoi macabri particolari – i condannati vestiti con il camice funebre di colore bianco, la lettura della condanna, la disposizione del plotone di esecuzione – all’ultimo momento giunse un messo a cavallo con la notizia della concessione della grazia: la pena veniva commutata nei lavori forzati in Siberia. Ma non si trattava di una concessione sovrana, provvidenzialmente sopraggiunta all’ultimo momento. In realtà era accaduta una cosa odiosa e terribile. Il Governo zarista, nella sua bieca necessità di controllare le coscienze, aveva portato degli esseri umani fino al limite estremo della vita, esponendoli ad una pena insopportabile per la mente di un uomo. Questo momento estremo è scandito da un rituale che ne sottolinea l’eccezionalità e che si imprime indelebilmente nella coscienza dei condannati, dilatata fino allo spasimo. Questa esperienza rappresentò una tremenda prova per il loro equilibrio psichico: alcuni non ressero a questa tensione estrema e impazzirono. Dostoevskij mantenne la padronanza di sé – allora come durante i penosi anni di lavori forzati – ma il ricordo di quei momenti lo accompagnò per tutta la vita, divenendo il centro ideale di tutte le sue riflessioni sulla vita e sul destino dell’uomo. Il giorno dell’esecuzione si configurò all’interno della sua coscienza come una sorta di tempo dilatato eternamente presente, cristallizzato nella sua terribilità.
“Tutta la sua vita successiva è stata improntata dalla tensione psicologica di quegli attimi e dalla conoscenza profonda e perturbante che sempre scaturisce dalle situazioni limite. Dopo essere entrato per dei lunghi e interminabili momenti nell’eternità, era tornato indietro nella vita. Qualcuno dei suoi compagni rimase fissato per sempre a guardare oltre la soglia che divide la vita dalla morte, nell’abisso dell’inconscietà. Egli riuscì a varcare di nuovo quella soglia fatale, e ritornò portando con sé la sapienza della morte.”[1]
[1] D.Bucelli, M.Fiorentino, Saggio Dostoevskij e la vita interiore, Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. 12, Roma, 1988, pag.42.

giovedì 7 agosto 2008

La punizione del gioco in Dostoevskij


Dostoevskij parte per la prima volta verso l’Occidente all’inizio del mese di giugno del 1863. E’ diretto a Parigi, ma quando passa per Wiesbaden, allora una delle capitali del gioco in Europa, come la altre città d’acqua tedesche, Baden-Baden, Amburgo, Ems, scende dal treno per sfidare la sorte alla roulette, attratto dalle illusorie descrizioni lette sui giornali russi.
Passato non molto tempo, Dostoevskij, consigliato dal suo medico, visto che le sue crisi di epilessia diventavano sempre più frequenti, decide di partire di nuovo per l’Europa. Sua moglie tubercolotica sta morendo e lui deve raggiungere a Parigi l’amica Polina Suslova (Apolinarija Suslova, adombrata nel personaggio di Polina Aleksàndrovna del Giocatore). La partenza è però continuamente rimandata e Polina, spazientita, si innamora di uno studente spagnolo. Dostoevskij, furioso, si mette allora in viaggio, ma, ancora, passando per Wiesbaden, cede alla tentazione della roulette.
Arrivato a Parigi, trova Polina che ha appena rotto con lo spagnolo, quindi si propongono di partire insieme per l’Italia, non rinunciando, tuttavia, a passare per Wiesbaden e Baden-Baden, dove perdono tutti i soldi che lui era riuscito a guadagnare.
E’ allora che gli viene l’idea di scrivere un romanzo sul gioco. Scrive all’amico Strachov, da Roma, il 18 settembre 1863[1]:
Per ora non ho niente di pronto, ma ho un bel progetto in mente. L’ho annotato in parte su carta straccia […]. Il soggetto è questo: il tipo dell’uomo russo all’estero. Tutto questo ci sarà nel romanzo, ma io voglio che vi si rifletta, nella misura in cui vi è possibile, lo stato attuale della nostra vita interiore. Penso a un uomo il cui carattere sia assolutamente aperto, un uomo che si interessi a diverse materie, ma incompleta a ognuna. Ha perduto ogni fede, ma nello stesso tempo non osa essere miscredente. E’ a un tempo ribelle all’autorità e spaventato da essa. Si consola pensando che non ci sia niente da fare per lui in Russia, e condanna crudamente tutti coloro che vorrebbero richiamare in patria i russi che vivono all’estero. Ma non posso raccontarti tutto adesso. […] Il punto essenziale è che tutta la sua linfa vitale, le sue forze, il suo impeto e la sua audacia sono assorbiti dalla roulette. […] Il mio eroe a modo suo è un poeta, ma si vergogna di questa poesia di cui sente profondamente la bassezza. Tuttavia il bisogno di rischiare qualcosa lo risolleva dai propri occhi. Il racconto parlerà solo dei tre anni in cui egli gioca alla roulette.

Solo parecchi anni più tardi Dostoevskij realizzerà il suo progetto, dopo diversi viaggi e un’assidua frequentazione dei tavoli da gioco tedeschi, dopo la morte della moglie e del fratello. Oppresso dai creditori, firma un contratto con l’editore Stellovskij per la pubblicazione delle sue opere complete, impegnandosi a consegnare un romanzo inedito entro il 1° novembre 1866, pena la perdita di tutti i diritti su questa edizione e l’obbligo di rimborsare il denaro che aveva già ricevuto. Avendo però già avuto un anticipo da un altro editore per Delitto e Castigo, si trova a dover terminare due libri con scadenze impossibili.
Così, quando Dostoevskij, infine, scrive il suo racconto, si gioca l’ultima carta. Se non vince la scommessa di scrivere quest’opera, perde tutto. Le circostanze della redazione si accordano fin troppo bene con il tema che affronta, tema che già da anni avrebbe voluto sviluppare, non solo con la speranza di guadagnare qualche soldo, ma soprattutto sperando così di smettere di perderne, perché questo libro è un esorcismo. Si sforza, descrivendola, di neutralizzare la passione del gioco che lo travolge.
La personalità che con tale forza vive in queste pagine prima per il suo autore che per noi, Dostoevskij vuole separarla dalla sua; l’autore vuole liberarsi da questo suo doppio che lo divora e lo rovina. E’ dunque lui che parla, ma cercando di differenziare l’eroe da se stesso, inserendolo in circostanze ben precise, che sottolineano il distacco da lui, di modo che, quando nelle ultime righe del libro si leggerà: “Domani, domani tutto finirà!”, egli potrà sperare che queste parole saranno vere per se stesso, per lui, Fëdor Dostoevskij, vale a dire che da quel momento avrà la saggezza di non giocare mai più, mentre tutta la fatalità della roulette, a cui invano aveva cercato di sottrarsi fino ad allora, si abbatterà sul suo capro espiatorio, che è Alekséj Ivànovic.
Scrivendo Il Giocatore, dunque, Dostoevskij gioca, gioca per liberarsi dal gioco, per far tacere il giocatore che c’è in lui.
Se all’inizio del racconto i giocatori sono separati da coloro che si limitano a guardare i gentlemen, con l’arrivo della nonna questa distinzione si dissolve. Se all’inizio del racconto, il generale e il suo seguito riescono sempre a fare bella figura, a comportarsi in modo ragionevole, con il comportamento imprevedibile della nonna, che sarcasticamente si può associare alla biglia che gira nella cuvette, questo atteggiamento contenuto non è più possibile.
Se Alekséj si mette a giocare veramente è per umiliazione, perché è stato cacciato dal generale e vede con quale rapidità intorno al tavolo della roulette il rispetto si riconquisti, grazie alle somme di denaro, di cui decide la piccola biglia.
In una società dove il rispetto dipende a tal punto dal denaro, senza che nessuno si interroghi sulla sua origine, se il tavolo da gioco è il luogo dove si può guadagnare molto denaro in poco tempo, si può dire che esso sia anche l’unica difesa per colui che è umiliato.
Se Alekséj non è salvato alla fine del libro, se sprofonda nell’inferno del gioco, è perché è solo, malgrado l’attaccamento capriccioso e distante che prova per lui Polina. Dostoevskij, lui, mentre stava completando la stesura, puntò su un’altra donna, Ana, che lo aiutò come stenografa e dopo tre mesi diventerà sua moglie. Quando mette il punto finale, quando consegna il manoscritto nelle mani del commissario di polizia, spera di abbandonare, rinchiuso nella gabbia che lui stesso ha costruito, il suo disgraziato doppio. Quindi lui sarà liberato.

[1] Dostoevskij (1866), Il giocatore, introduzione di Michel Butor, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1991, pag.VI.

domenica 3 agosto 2008

Bisessualità nella vita e nelle opere di Dostoevskij


Riprendendo il pensiero di Freud, oltre al parricidio vi è un’altra fonte che contribuisce ad alimentare il senso di colpa: la bisessualità. Questa disposizione subentra nel momento in cui il bambino reagisce alla minaccia della sua virilità, rappresentata dall’evirazione, ponendosi nella posizione della madre e assumendo il suo ruolo di oggetto d’amore agli occhi del padre. “Una disposizione accentuatamente bisessuale diventa così un elemento che rende possibile o rafforza la nevrosi” (Freud, 1927, pag.528). Freud ipotizza questa predisposizione nel caso di Dostoevskij considerando l’importanza delle amicizie maschili nella sua vita e la dolcezza del suo comportamento verso i rivali in amore.
Si potrebbe prendere in considerazione a questo proposito un esempio lampante di questa sua disposizione nel racconto Cuore debole, dove il protagonista Vasja Šumakov ottiene dal suo capo Julian Mastakovič un posto e in seguito viene anche promosso, credendo che tutto ciò gli provenga dalla generosità del suo capo. Ma il sentimento di gratitudine in Vasja si trasforma pian piano in un atteggiamento di servilismo e, quando Vasja non fa in tempo a consegnare il lavoro, il suo senso di colpa è talmente grande che lo porta alla follia.
Vasja e Arkadij Nefedevič abitano nello stesso appartamento, e Dostoevskij ce li descrive come amici molto stretti, che condividono le esperienze di vita con relative emozioni. Quello che colpisce è la dolcezza dell’atteggiamento che hanno questi due personaggi tra loro: « “Ah, Arkaša! Salve colombello! Ebbene fratello, tu non sai che cosa sto per dirti!” “Proprio non lo so; vieni qui, avvicinati.” Vasja, come se non attendesse altro, si precipitò, non sospettando alcuna perfida intenzione da parte di Arkadij Ivanovič. Ma questi lo afferrò con molta destrezza per le braccia, lo rigirò, scaraventandolo sotto di sé, e cominciò a ‘soffocare’ la sua povera vittima, cosa che sembrava procurargli un piacere immenso.»[1]
« “Ebbene, mi sono fidanzato”. Arkadij Ivanovič, senza proferire la minima parola di augurio, in silenzio sollevò Vasija sulle sue braccia come un bimbo, sebbene Vasja non fosse affatto piccolino, ma di statura piuttosto elevata, benché esile, e prese a trascinarlo con molta naturalezza da un angolo all’altro della stanza, fingendo di cullarlo.» (ibidem, pag 185).
« “Io non te l’ho mai detto prima, Arkadij… Arkadij! La tua amicizia mi rende così felice, senza di te non sarei al mondo – no, no, non dire niente, Arkaša! Dammi la tua mano perché la stringa, lascia che … ti ringrazi!” Arkadij Ivanovič avrebbe voluto subito gettarsi al collo di Vasija, […].» (ibidem, pag 198).
[1] Dostoevskij (1848), Cuore debole, in Racconti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991, pag.189.

Il confronto con il padre nell'autorità statale e nella fede in Dio


Il Padre è Dio. Ma se la presenza del padre e dunque del Padre nell’“io” è un ingombro alla nascita dell’“io” stesso, allora come uscirne?
“Ivàn – come Raskòl’ikov ecc. – continua a riflettere sul senso di quella sua scoperta teorica, ‘se Dio non esiste allora tutto è permesso’, e se ne ipnotizza. Quella frase è l’immediata conseguenza della voglia di parricidio: se il padre non ci fosse più a vincolare il mio ‘io’, allora tutto ciò che il mio ‘io’ può mi sarebbe permesso: e dal padre terreno a quello divino, tale frase potrà naturalmente percorrere tutti i grandi intermedi, in un crescendo rivoluzionario: se le autorità spirituali non ci fossero allora tutto sarebbe permesso, se lo zar non ci fosse allora tutto sarebbe permesso, e così via”. (ibidem, pag.XXVIII).
In Delitto e Castigo Dostoevskij descrive la vicenda di un uomo che ritiene di poter infrangere la legge del rispetto umano, confondendo la libertà con l’arbitrio. Nei Demoni è raffigurata la stessa vicenda, ma protagonista del delitto, che incontrerà il suo castigo, non è più un uomo singolo ma una setta di cospiratori. La filosofia del “tutto è permesso”, che è quella di Raskòl’nikov in Delitto e castigo, diviene nei Demoni la teoria rivoluzionaria secondo la quale non vi sono argini di bene e di male nell’azione politica. In entrambi i casi non si giustifica per Dostoevskij il ricorso alla violenza e all’omicidio. La personalità dell’uomo, di qualsiasi uomo, anche il più miserevole, come la sudicia usuraia di Delitto e castigo, è qualcosa di sacro e di assoluto che non è lecito adoperare come mezzo o strumento ma si deve rispettare come valore e fine in sé.
Sia Raskòl’nikov che Stavroghin hanno infranto la morale corrente. Ma Raskòl’nikov crede di aver scoperto una verità teoretica e lotta per conquistarsi la sua libertà, anche se illusoria; è un ricercatore. Stavroghin invece non cerca nulla, non crede in nulla; ha grandi capacità intellettive che però non sono dotate di un senso morale.
Attraverso i vari personaggi dei due romanzi qui citati, Dostoevskij ci vuole persuadere che il mondo liberale è un mondo fiacco, incapace di scorgere le conseguenze delle proprie posizioni ideologiche.
“Il carattere della ‘demonicità’ è quello di spingere e travolgere l’uomo suo malgrado, privandolo della libertà e della disponibilità interiore, recidendo i vincoli di partecipazione umana con gli altri. Questa demonicità che nega Dio, la libertà e la personalità, è più una malattia psichica che un fenomeno politico. La “demonicità” e la “ossessione” sono forze che paralizzano la personalità, atrofizzano il senso della libertà e contraggono la coscienza.”
[1]
[1] Dostoevskij (1870), I demoni, introduzione di Remo Cantoni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987, pag.X.

giovedì 31 luglio 2008

Rapporto innegabile tra il parricidio nei FRATELLI KARAMAZOV e il destino del padre di Dostoevskij.


Come è stato analizzato da Freud nel saggio Dostoevskij e il parricidio, Dostoevskij si autopunisce attraverso gli attacchi epilettici per il desiderio di morte nei confronti del padre odiato, parricidio come fonte del senso di colpa.
Questo tema viene ampliamente sviluppato nel romanzo I fratelli Karamazov, e si possono notare molti elementi che appartengono anche alla vita privata dello scrittore.
Fëdor Pávlovič Karamàzov, il padre ucciso nel romanzo in questione è raffigurato come un uomo osceno, che dilania chiunque con la sua presenza in perenne ricerca di svago e con l’astuzia che serve al contempo da strumento e da unico limite alla ferocia; era vedovo, aveva la tendenza a bere un bicchiere di troppo ed era solito utilizzare la sua autorità per dominare le persone a lui dipendenti. Si ritiene che Michaìl Andrèevič Dostoevskij, il padre dello scrittore, fosse un uomo collerico e turpe; il fatto che fosse stato assassinato da alcuni contadini per le brutalità che egli era solito commettere conferma questa ipotesi. Un altro aspetto reale che si intreccia con il romanzo è che sia tra Dostoevskij padre e scrittore, che tra Fëdor Pávlovič Karamàzov e i figli, l’argomento predominante era il denaro.
I quattro fratelli Karamazov, secondo una Lettera di risposta ai critici che Dostoevskij si accinse a scrivere alla fine del 1879 e che poi non scrisse, avrebbero dovuto rappresentare nel loro insieme “una raffigurazione – sia pure in scala ridotta da uno a mille - della nostra realtà contemporanea, nella nostra attuale e tanto intellettuale Russia”[1]. Ma, proprio in quell’intero che essi costituiscono, danno forma del pari a una raffigurazione della personalità stessa, della mente-anima dell’uomo in genere, in cui davvero accanto a tre parti di compiutezza, di coscienza, accanto a un tre che si prende il diritto di considerarsi già un intero, c’è una parte in più, non integrata, in ombra, che rende quell’intero trinario una pretesa vana – proprio come il subentrante, imprevisto Smerdijakòv, al quale fino alla fine verrà rifiutata l’integrazione a quella famiglia a cui egli appartiene quanto gli altri tre.

[1] Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, introduzione di Igor Sibaldi, pag XXXVI, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994.

Dostoevskij e il parricidio, S.Freud


Sigmund Freud nel saggio Dostoevskij e il parricidio scritto nel 1927, analizza la personalità di Fedor Michàjlovič Dostoevskij, che attraverso le sue opere riuscì a dar sfogo alla sua travagliata vita psichica.
Per Freud, Dostoevskij è sia scrittore che nevrotico, moralista e peccatore; si potrebbe supporre che l’aspetto più ‘aggredibile’ è quello etico in quanto manca l’elemento essenziale della moralità: la rinuncia. “Morale è chi già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, e ad essa non cede”
[1]; infatti “egli finisce con l’approdare a una posizione retrograda: si sottomette sia all’autorità temporale sia a quella spirituale, venera per lo zar ma anche il Dio cristiano, coltivando in più un getto di nazionalismo” (ibidem, pag.521). Le caratteristiche fondamentali che delineano un delinquente (persona senza moralità) sono l’egoismo illimitato e la forte tendenza distruttiva, uniti dalla mancanza d’amore. Questa descrizione entra in contrasto con ciò che era lo scrittore russo, ma “la contraddizione si risolve rendendosi conto che la fortissima pulsione distruttiva di Dostoevskij, che avrebbe potuto farne facilmente un criminale, si dirige nella vita principalmente contro la sua stessa persona (si rivolge cioè all’interno anziché all’esterno), esprimendosi perciò sottoforma di masochismo e di senso di colpa” (ibidem, pag.522).
Freud prosegue il saggio argomentando come Dostoevskij fosse affetto da nevrosi e che i suoi attacchi epilettici fossero di natura affettiva (non organica); a questo riguardo inoltre afferma che “l’ipotesi più probabile è che gli accessi risalgano all’infanzia di Dostoevskij, che si siano manifestati dapprima mediante sintomi meno accentuati, e che abbiano assunto la forma epilettica soltanto dopo la terribile esperienza che egli fece a diciotto anni: quando morì suo padre assassinato” (ibidem, pag.525). Freud considera psicoanaliticamente questo evento il trauma più intenso, di Dostoevskij il perno della nevrosi; prosegue il suo ragionamento prendendo in considerazione il fatto che “fin dagli anni giovanili Fedor aveva l’abitudine, prima di addormentarsi, di lasciare dei biglietti sui quali era scritto che egli temeva di cader preda durante la notte di questo sonno simile alla morte, e pregava perciò di lasciar passare cinque giorni prima di seppellirlo”
[2]. Questo significa che Dostoevskij si identificava con una persona che desiderava morta, e questa persona viene considerata dalla psicoanalisi il padre e “l’attacco – definito isterico - è perciò un’autopunizione per il desiderio di morte nei confronti del padre odiato. Il parricidio è, secondo una nota concezione, il delitto principale e primordiale sia dell’umanità che dell’individuo” (Freud, 1927, pag.527).
Oltre al parricidio vi è un’altra fonte che contribuisce ad alimentare il senso di colpa: la bisessualità. Questa disposizione subentra nel momento in cui il bambino reagisce alla minaccia della sua virilità, rappresentata dall’evirazione, ponendosi nella posizione della madre e assumendo il suo ruolo di oggetto d’amore agli occhi del padre. “Una disposizione accentuatamente bisessuale diventa così un elemento che rende possibile e rafforza la nevrosi” (pag.528). Freud ipotizza questa predisposizione nel caso di Dostoevskij considerando l’importanza delle amicizie maschili nella sua vita e la dolcezza del suo comportamento verso i rivali in amore.
L’identificazione con il padre si inserisce all’interno dell’ Io; “Super-io è diventato sadico, l’Io diventa masochistico, ossia in fondo femminilmente passivo” (pag.529). In questa prospettiva gli “accessi simili alla morte” costituiscono un’identificazione dell’Io con il padre che viene “consentita a titolo punitivo dal Super-io” (pag.529). Fedor conservò negli anni il suo odio verso il padre, come mantenne il suo desiderio di morte verso questo genitore cattivo, che nel tempo peggiorava caratterialmente anziché migliorare. Se questi desideri rimossi si avverano, inevitabilmente la fantasia diventa realtà e di conseguenza tutte le misure difensive vengono potenziate. “A questo punto gli accessi di Dostoevskij assumono carattere epilettico, significano ancora l’identificazione punitiva col padre ma sono diventati terribili, come terribile è stata la morte spaventosa del padre”(pag.530). L’intenzione parricida costituì un vero e proprio peso di coscienza, che lo scrittore russo non riuscì ad elaborare nel corso della sua vita; per questo motivo anche il suo atteggiamento verso l’autorità statale e verso la fede in Dio, due sfere nelle quali il confronto del padre è determinante, fu influenzato. Dopo aver confrontato le differenti dinamiche di parricidio nei tre capolavori della letteratura di tutti i tempi (Edipo re di Sofocle, Amleto di Shakespeare e Fratelli Karamazov di Dostoevskij), Freud conclude la prima parte del saggio constatando come per Dostoevskij il criminale è un uomo che ha avuto il grande pregio di prendere su di sé la colpa di un delitto così atroce, delitto che altrimenti sarebbe messo in atto inevitabilmente da altri; “Uccidere non è più necessario dopo che egli ha già compiuto il delitto, ma bisogna essergliene grati, perché altrimenti avremmo dovuto uccidere noi stessi” (pag.534).

Nella seconda e ultima parte del saggio, Freud esamina la passione per il gioco dello scrittore russo. Il gioco era per lui un modo per punirsi, una volta che aveva perduto tutto poteva disprezzarsi e farsi umiliare; il fatto che volesse servirsi di questo rischioso metodo di guadagno per poter accumulare quantità di denaro più che sufficienti per poter vivere, era soltanto un pretesto; infatti “egli sapeva che l’essenziale era il gioco in sé e per sé, le jeu par le jeu” (pag.534), come scriveva in una delle sue lettere. La moglie lo seguiva in questi cicli di povertà e maggiore tranquillità economica, perché aveva capito che la situazione di miseria era una condizione ottimale per la produzione letteraria di Dostoevskij; “restava sempre al tavolo da gioco finché non aveva perduto tutto, finché non rimaneva completamente annientato. Solo quando la sciagura si era compiuta interamente il demone abbandonava la sua anima e lasciava posto al genio creativo” (Eckstein, Miller, 1925).
Freud conclude questo saggio prendendo in considerazione la novella “Ventiquattro ore dalla vita di una donna” di Stefan Zweig che tratta il tema della coazione a ripetere del gioco. “Se la passione del gioco, con le sue lotte vane e ingloriose per perdere il vizio e con occasioni che offre per l’autopunizione, ripete la coazione onanistica, non ci stupiremo che tale passione si sia conquistata un posto così importante nella vita di Dostoevskij” (Freud, 1927, pag.537).
[1] Freud S. (1927) Dostoevskij e il parricidio, in OSF,vol. 10, pag.521.
[2] F.Eckstein, René Fülöp-Miller (a cura di), Dostojewski am roulette, [Dostoevskij alla roulette], (Monaco 1925).