lunedì 6 ottobre 2008

L'ultimo giorno di un condannato a morte. Victor Hugo.


È il 1829 l'anno che vede pubblicato per la prima volta questo scritto di Victor Hugo, ma l'autore rimane anonimo. L'Europa sta passando tempi in cui la ragione dell'uomo sembra poter portare il mondo verso una sorte migliore, priva di guerre ed inutili barbarie: eppure, in Place de Grève, vengono giustiziati uomini, sotto i colpi della ghigliottina, davanti ad un pubblico di benpensanti che paga i posti a sedere sulle terrazze intorno alla piazza per vedere meglio rotolare la testa del condannato, come una sorta di cinema dell'Ottocento.
“Tutta quella gente riderà, batterà le mani, applaudirà. E tra quegli uomini, liberi e ignoti ai carcerieri, che corrono euforici verso un’esecuzione, tra quella folla di teste che coprirà la piazza, più d’una testa sarà predestinata a seguire prima o poi la mia, nel cesto rosso. Più d’uno che ci viene per me, ci andrà per sé.
In un punto preciso di place de Grève, c’è per quegli esseri fatali un luogo fatale, un centro d’attrazione, una trappola. Vi girano attorno finché non vi sono dentro.”
[1]

Victor Hugo considera il Dernier jour una sorta di pubblica arringa travestita da racconto, in favore dell’abolizione della pena di morte, abbracciando dichiaratamente il pensiero di Beccaria (Dei delitti e delle Pene, 1764).
Il romanzo parla degli ultimi giorni di un condannato di cui non sappiamo nulla: vengono dati pochi indizi sul crimine commesso, sull'età, sull'estrazione sociale, come per far rappresentare al suo condannato la totalità dei giustiziati. Che valga per un re o per l'ultimo brigante del popolo, la vita non può essere tolta a nessuno se non da Dio.
La presunta istantaneità e l’altrettanto presunta qualità indolore di questa morte, che oggi qualcuno definirebbe ‘chirurgica’, avevano per qualche decennio suffragato l’ipotesi che la ghigliottina operasse sui rei, per così dire, beneficamente: uccidendo il corpo, ma senza inferirvi. Una delle conseguenze di questa morte addolcita fu senz’altro l’accentuarsi del carattere pubblico dell’esecuzione: la diminuzione del dolore nel condannato bastava da sola a giustificare la presenza d’un pubblico d’ogni età – persino di un pubblico per così dire sensibile.

“Dicono che non sia nulla , che non si soffra, dicono che sia una fine dolce, che la morte in questo modo sia molto semplificata.
Che significa, allora in quest’agonia di sei settimane? Che significano le angosce di questo giorno irreparabile, che scorre così adagio e così in fretta? E questa scala di torture che sfocia nel patibolo?
Ma a quanto pare, soffrire non è questo.
Che il sangue s’esaurisca a goccia a goccia, o che d’intelligenza si spegna un pensiero dopo l’altro, non sono forse due identici spasmi?” (ibidem, pag.70)

Ciò che resta vivido durante la lettura, è la continua tortura del tempo. Questo tempo in corsa, e che alla fine ruba all’altro la vita, se non ha un volto non manca però d’imporre una presenza; è contenuto in ogni frase, orientando ritmicamente la cadenza: il movimento del linguaggio segue quella del pendolo.

“L’una e un quarto.
Ecco che cosa provo in questo momento:
Un violento dolore alla testa. Freddo alle reni, la fronte bruciante. Ogni volta che m’alzo o mi piego, è come se nella testa si agitasse un liquido che manda il cervello a sbattere contro le pareti del cranio.
Ho degli scatti convulsi, e come in preda a una scossa elettrica la penna di tanto in tanto mi cade dalla mano.
Gli occhi mi bruciano come fossi in mezzo al fumo.
I gomiti mi dolgono.
Ancora due ore e quarantacinque minuti, e sarò guarito.” (ibidem, pag. 70)

L’incedere della parola non può non coniugarsi mirabilmente con l’antitesi. La morte e la vita, la prigionia e la libertà, il chiuso e l’aperto, il buio e la luce, il sogno e la realtà, il basso e l’alto, il prima e il dopo la morte, il condannato a il re, sono le principali coppie avversative attraverso le quali il monologo del Dernier jour si frantuma in una miriade di frasi, spesso brevi che procedono l’una rispetto all’altra talvolta per dissonanza oppure per risonanza.

“In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto irruzione fino a me nel buio. Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la pioggia le mille facce urlanti della gente ammassata sulla rampa del grande scalone del palazzo,…” (ibidem, pag.82).
[1] Hugo V. (1828)L’ultimo giorno di un condannato a morte,Mondadori, Milano, 1998, pag.79.

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