sabato 9 agosto 2008

Vicenda della condanna a morte di Dostoevskij


Nel 1849 Dostoevskij fu arrestato dalla polizia zarista sotto l’accusa di cospirazione e in seguito fu condannato a morte insieme ai suoi compagni. La sentenza fu eseguita in tutti i suoi macabri particolari – i condannati vestiti con il camice funebre di colore bianco, la lettura della condanna, la disposizione del plotone di esecuzione – all’ultimo momento giunse un messo a cavallo con la notizia della concessione della grazia: la pena veniva commutata nei lavori forzati in Siberia. Ma non si trattava di una concessione sovrana, provvidenzialmente sopraggiunta all’ultimo momento. In realtà era accaduta una cosa odiosa e terribile. Il Governo zarista, nella sua bieca necessità di controllare le coscienze, aveva portato degli esseri umani fino al limite estremo della vita, esponendoli ad una pena insopportabile per la mente di un uomo. Questo momento estremo è scandito da un rituale che ne sottolinea l’eccezionalità e che si imprime indelebilmente nella coscienza dei condannati, dilatata fino allo spasimo. Questa esperienza rappresentò una tremenda prova per il loro equilibrio psichico: alcuni non ressero a questa tensione estrema e impazzirono. Dostoevskij mantenne la padronanza di sé – allora come durante i penosi anni di lavori forzati – ma il ricordo di quei momenti lo accompagnò per tutta la vita, divenendo il centro ideale di tutte le sue riflessioni sulla vita e sul destino dell’uomo. Il giorno dell’esecuzione si configurò all’interno della sua coscienza come una sorta di tempo dilatato eternamente presente, cristallizzato nella sua terribilità.
“Tutta la sua vita successiva è stata improntata dalla tensione psicologica di quegli attimi e dalla conoscenza profonda e perturbante che sempre scaturisce dalle situazioni limite. Dopo essere entrato per dei lunghi e interminabili momenti nell’eternità, era tornato indietro nella vita. Qualcuno dei suoi compagni rimase fissato per sempre a guardare oltre la soglia che divide la vita dalla morte, nell’abisso dell’inconscietà. Egli riuscì a varcare di nuovo quella soglia fatale, e ritornò portando con sé la sapienza della morte.”[1]
[1] D.Bucelli, M.Fiorentino, Saggio Dostoevskij e la vita interiore, Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. 12, Roma, 1988, pag.42.

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