martedì 12 agosto 2008

L'Idiota




Il giorno dell’esecuzione si configurò all’interno della coscienza di Dostoevskij come una sorta di tempo dilatato eternamente presente; nelle ore che lo separano dall’esecuzione ha modo di rendersi conto di quanto la morte già gli appartenga entrando inevitabilmente in un mondo di terrore e di fantasie deliranti.
A distanza di molti anni Dostoevskij ricorda questo episodio ne L’idiota[1] :
“Quell’uomo una volta fu portati sul patibolo, insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte per fucilazione, per un reato politico. Una ventina di minuti dopo gli fu letta la sentenza di grazia e gli venne commutata la pena: però nell’intervallo di tempo tra le due sentenze, se non venti almeno quindici minuti, lui visse con l’assoluta certezza che d’un tratto, entro pochi minuti, sarebbe morto. […] Ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. […] Condussero i primi tre ai pali, li legarono, li vestirono con gli abiti mortuari (lunghe tuniche bianche), e infilarono loro dei cappucci bianchi fin sugli occhi, perché non vedessero i fucili; […] Significava che restavano da vivere non più di cinque minuti. Lui diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, un’immensa ricchezza; gli pareva di poter vivere tante vite in quei cinque minuti, che per il momento non doveva ancora pensare all’ultimo istante, e prese anche delle decisioni: calcolò il tempo per dare l’addio ai suoi compagni, e dispose per questo due minuti; altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e il resto per guardarsi intorno per l’ultima volta. […] Lui adesso esisteva e viveva, ma in capo a tre minuti sarebbe stato già un non so che, qualcuno , o qualcosa, ma chi? E dove? Pensava di risolver tutto in quei due minuti! Non lontano c’era una chiesa, e il suo tetto d’orato brillava sotto il sole splendente. Ricordava di aver fissato molto intensamente quella cupola, e i raggi che vi si riflettevano: non poteva staccarsi dai raggi, gli pareva che quei raggi sarebbero stati la sua nuova natura, e che tre minuti dopo sarebbe in qualche modo confluito in essi… L’incertezza e la repulsione verso quell’ignoto che sarebbe diventato e che stava proprio per giungere erano tremende; ma lui diceva che in quel momento niente era per lui penoso dell’incessante pensiero: ‘Oh, poter non morire! Poter far tornare indietro la vita: che eternità! E tutto questo sarebbe mio! Allora trasformerei ogni minuto in un intero secolo, non ne perderei niente, terrei in conto ogni minuto, per non sprecare invano nemmeno più un istante!’. Diceva che questo pensiero alla fine gli era degenerato in una rabbia tale da fargli desiderare che gli sparassero al più presto.”

[1] Dostoevskij, (1869), L’idiota, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995, pag.81.

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